martedì 31 luglio 2012

Alcune novità per le detrazioni 36% e 55%

di Sandro CERATO

L’art. 11 del D.L. 22.6.2012 n. 83, entrato in vigore il 26 giugno 2012, contiene importanti novità in merito all’applicazione delle detrazioni del 36% e del 55% sugli interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica degli edifici. La richiamata disposizione normativa prevede, sinteticamente, le seguenti novità:
·       per le spese documentate relative agli interventi di cui all’art. 16-bis comma 1 del TUIR (interventi di recupero edilizio), sostenute dal 26.6.2012 e fino al 30.6.2013, la detrazione IRPEF del 36% spettante in relazione alle spese sostenute per determinati interventi di recupero edilizio è elevata al 50%. Per lo stesso periodo, anche l’ammontare massimo detraibili delle spese per interventi di recupero edilizio è incrementato da 48.000,00 euro a 96.000,00 euro.
·       sul fronte delle spese di riqualificazione energetica, la proroga delle detrazioni di cui all’art. 1 co. 344 - 347 della L. 296/2006 per il periodo 1.1.2013 - 30.6.2013, attuata mantenendo stabili i valori massimi della detrazione ma riducendo dal 55% al 50% la misura della stessa (co. 2). Tale disposizione è stata oggetto di modifica nel corso dell’iter di conversione in legge del decreto, ed in particolare è stato più semplicemente stabilito che la detrazione rimane fissata nella misura del 55% per le spese sostenute fino al 30 giugno 2013, prorogando in tal modo l’agevolazione, nel “quantum” originario, per altri sei mesi rispetto alla scadenza prevista in origine;
·       l’applicabilità immediata (dal 2012) della detrazione IRPEF sui recuperi edilizi agli interventi di cui al­l’art. 16-bis co. 1 lett. h) del TUIR, vale a dire alle opere finalizzate al conseguimento di risparmi ener­getici, effettuate anche in assenza di lavori edilizi (co. 3). Originariamente, la detrazione IRPEF del 36% avrebbe dovuto applicarsi a tale nuova tipologia di interventi solo dall’1.1.2013, data dalla quale avrebbe dovuto cessare l’applicazione delle detrazioni IRPEF/IRES del 55%.
L’art. 4, co. 4, del D.L. 6.12.2011, n. 201, aveva disposto la proroga fino al 31 dicembre 2012 delle detrazioni Irpef/Ires spettanti a fronte delle spese sostenute per gli interventi di riqualificazione energetica per le quali spetta l’agevolazione nella misura del 55%. Tale proroga era funzionale al successivo inserimento della disciplina del 55% nell’ambito dell’art. 16-bis del TUIR, in cui, quale disposizione a regime, si disciplina la detrazione Irpef del 36%, a decorrere dal 1° gennaio 2013.
A tale proposito, la lett. h) dell’art. 16-bis del TUIR dispone che la detrazione del 36% spetta per gli interventi “relativi alla realizzazione di opere finalizzate al conseguimento di risparmi energetici con particolare riguardo all’installazione di impianti basati sull’impiego di fonti rinnovabili di energia”. In merito a tale disposizione, è opportuno osservare che:
·       da un lato restringe l’ambito applicativo della precedente detrazione del 55%, sia per la percentuale di detrazione stessa, sia per quanto riguarda i soggetti interessati, che saranno solo quelli Irpef;
·       dall’altro, sotto il profilo degli interventi agevolati, la nuova fattispecie normativa, come si desume dalla sua lettura, è certamente più ampia rispetto al passato, in quanto si fa generico riferimento, come visto, “alla realizzazione di opere finalizzate al conseguimento di risparmi energetici con particolare riguardo all’installazione di impianti basati sull’impiego di fonti rinnovabili di energia”. Ad esempio, l’installazione di pannelli fotovoltaici può certamente ricadere nell’alveo dell’art. 16-bis, lett. h), ma non ricadeva nell’ambito applicativo della “vecchia” detrazione del 55%.
Nel descritto contesto normativo, l’art. 11, co. 3, del D.L. 83/2012 anticipa gli effetti dell’applicazione dell’art. 16-bis, lett. h), del TUIR, in origine previsti dal 1° gennaio 2013, già a decorrere dall’anno 2012 (potenziate pro-tempore al 50%). Nel contempo, come si è visto, il precedente co. 2 dell’art. 11 proroga al 30 giugno 2013 la possibilità di fruire dell’agevolazione del 55% per gli interventi di riqualificazione energetica, ragion per cui si realizza un potenziale conflitto tra le disposizioni in esame. Posto che le due agevolazioni non sono cumulabili tra loro, il contribuente è chiamato ad operare una scelta, che sarà basata sulla convenienza, tenendo conto che:
·       la proroga al 30 giugno 2013 dell’agevolazione del 55% nella misura “piena” è certamente rilevante, in quanto i tetti di spesa sono consistenti, fermi restando i necessari adempimenti;
·       l’aumento al 50% della misura della detrazione Irpef del 36% rende la stessa più appetibile, sia pure inferiore di 5 punti percentuali, tenendo tuttavia conto dei minori adempimenti che sono richiesti per la fruizione della detrazione in esame rispetto a quella del 55%.
Proprio in relazione agli adempimenti, se da un lato è oggettivo il fatto che gli adempimenti per la fruizione della detrazione del 55% sono più articolati, dall’altro sarà necessario attendere del tempo per formulare una valutazione più definitiva in tal senso. Infatti, l’art. 16-bis, lett. h), del TUIR, stabilisce infatti che le opere agevolabili “possono essere  realizzate anche in assenza di opere edilizie propriamente dette, acquisendo idonea documentazione attestante il conseguimento di risparmi energetici in applicazione della normativa vigente in materia”. In relazione a tale disposizione, diventa ora impirtante conoscere il pensiero dell’Agenzia delle Entrate, poiché l’anticipo di tale disposizione al 2012 (e potenziata al 50%) deve porre nelle condizioni il contribuente di poter scegliere l’agevolazione più conveniente e meno onerosa in termini di adempimenti.

lunedì 30 luglio 2012

Piani attestati e accordi di ristrutturazione: trattamento delle sopravvenienze attive

di Michele Bana

L’art. 33, co. 4 del D.L. n. 83/2012 – così come modificato dall’emendamento approvato in sede di conversione – ha sostituito integralmente l’art. 88, co. 4, del Tuir, riguardante il regime di non imponibilità, in sede di determinazione del reddito d’impresa, delle sopravvenienze attive derivanti dalla riduzione dei debiti. La novellata disposizione ha confermato il principio generale di integrale irrilevanza dei componenti positivi, imputati a conto economico, per effetto della decurtazione delle passività operata in occasione di un concordato preventivo o fallimentare. La variazione rispetto al passato riguarda, invece, la considerazione di altri strumenti della soluzione della crisi d’impresa, introdotti nella Legge Fallimentare dopo l’entrata in vigore del previgente art. 88, co. 4, del Tuir, ovvero i piani attestati di risanamento citati dall’art. 67, co. 3, lett. d), L.F. – purchè pubblicati nel registro delle imprese – e l’accordo di ristrutturazione dei debiti omologato a norma dell’art. 182-bis del R.D. n. 267/1942. In particolare, è stato stabilito che il componente positivo derivante dalla riduzione dei debiti dell’impresa, in base ad uno di questi due istituti, “non costituisce sopravvenienza attiva per la parte che eccede le perdite, pregresse e di periodo, di cui all’articolo 84”: è, quindi, riconosciuto un regime di non imponibilità delle sopravvenienze attive, ma in misura parziale. In altri termini, non è consentito al debitore beneficiare sia della non imponibilità integrale di tale componente positivo che dell’utilizzo delle perdite, pregresse e di periodo, riportabili.
Il contenuto letterale del novellato art. 88, co. 4, del D.P.R. n. 917/1986 pone, tuttavia, alcuni dubbi interpretativi, principalmente riconducibili ai seguenti aspetti:
·     la tecnica utilizzata dal legislatore è quello di qualificare le sopravvenienze attive non eccedenti come i “proventi esenti” di cui al co. 1, terzo periodo della predetta disposizione. In altri termini, le perdite fiscali non sono sostanzialmente utilizzabili sino a concorrenza dell’importo delle sopravvenienze attive da riduzione dei debiti. L’imposizione delle sopravvenienze attive da riduzione dei debiti, nel limite delle perdite fiscali utilizzate, appare, peraltro, incoerente – oltre che con la disciplina del concordato preventivo – con la ratio della modifica della disciplina delle perdite (art. 23, co. 9, del D.L. 6 luglio 2011, n. 98), fondata sulla necessità delle imprese di superare la crisi senza decadere dal diritto di utilizzazione del perdite prodotte (relazione illustrativa al Decreto);
·     il limite delle perdite fiscali, in quanto non riguarda soltanto le eccedenze pregresse, ma anche quella di periodo, la quale, a propria volta, è influenzata dal trattamento delle sopravvenienze attive da riduzione dei debiti. Sul punto, nel silenzio della norma, ed in attesa di chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate, si potrebbe ritenere applicabile un principio analogo a quello adottato dalla stessa Amministrazione Finanziaria, per individuare l’utile d’esercizio nell’ambito del patrimonio netto costituente il limite massimo della variazione in aumento rilevante ai fini Ace (art. 11 del D.M. 14 marzo 2012): il provvedimento direttoriale n. 65721/2012 aveva, infatti, stabilito la necessità di determinare il risultato economico d’esercizio “teorico”, senza considerare l’applicazione dell’Ace. Attesa l’analogia del meccanismo introdotto dal legislatore, potrebbe essere invocabile il medesimo principio, considerando – oltre alle eccedenze pregresse – la perdita fiscale di periodo “teorica”, ovvero senza applicare il nuovo regime di non imponibilità delle sopravvenienze attive;
·     il generico richiamo alle perdite disciplinate dall’art. 84 del Tuir, e non alle loro modalità di utilizzo, non considera che una parte di tali eccedenze è soggetta al vincolo quantitativo dell’80,00% del reddito imponibile. In altri termini, le sopravvenienze attive sono imponibili sulla base dell’importo integrale delle perdite riportabili, sebbene soltanto una parte delle stesse sarà poi scomputabile dal reddito imponibile del periodo d’imposta. A ciò si aggiunga che il piano attestato di risanamento e l’accordo di ristrutturazione dei debiti può essere formulato da imprese (individuali, s.n.c. e s.a.s.) diverse dai contribuenti Ires, le quali – nel caso di realizzo di sopravvenienze attive contabili – applicano l’art. 88, co. 4, del D.P.R. n. 917/1986, ma non sono soggette alla disciplina delle eccedenze pregresse riportabili prevista dall’art. 84 del Tuir, salvo il caso di quelle prodotte in un momento in cui il debitore era costituito in forma di società di capitali e si è, poi, trasformato in s.n.c. o s.a.s. (rigo RF55, colonne 1 e 2, del Modello Unico – Società di Persone). In altri termini, la società di persone potrebbe non disporre di perdite di cui all’art. 84 del Tuir, con l’effetto che beneficerebbe dell’integrale esclusione da imposizione delle sopravvenienze attive da riduzione dei debiti, ed i soci utilizzare le perdite riportabili dalla stessa attribuite loro in base al principio di trasparenza.
Alla luce di quanto sopra riportato, appare evidente che il legislatore non ha risolto il problema di fondo: la persistente preferibilità fiscale del concordato preventivo, al quale è accordata l’integrale esclusione da imposizione diretta delle plusvalenze da cessione dei beni (art. 86, co. 5, del D.P.R. n. 917/1986) e delle sopravvenienze attive da riduzioni dei debiti, nonché l’utilizzo delle perdite pregresse secondo le regole ordinarie dell’art. 84 del Tuir. Atteso che le imprese giungono alla soluzione della crisi dopo aver accumulato ingenti perdite fiscali riportabili, il beneficio introdotto dal D.L. n. 83/2012 rischia, infatti, di risultare particolarmente limitato, con palesi ripercussioni anche sulla soddisfazione dei creditori, rispetto all’alternativa ipotesi del concordato preventivo. Al fine di favorire la diffusione almeno dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, sarebbe stato opportuno equipararne la disciplina fiscale a quella del concordato preventivo, attraverso l’integrale esclusione da imposizione delle sopravvenienze attive da riduzione dei debiti (e delle plusvalenze da cessione dei beni), oppure introducendo il limite delle perdite anche per gli effetti reddituali dello stralcio delle passività del concordato preventivo.
Si consideri, infine, che – in virtù del principio della continuità aziendale, che ha ispirato l’intervento del D.L. n. 83/2012, in materia di crisi d’impresa – non è stata, invece, apportata alcuna modifica all’art. 86, co. 5, del Tuir, che continua a prevedere la totale irrilevanza fiscale delle cessioni di beni eseguite nell’ambito del solo concordato preventivo. Conseguentemente, nel caso di un piano attestato di risanamento o di un accordo di ristrutturazione dei debiti comportante – anche in ipotesi di soluzioni conservative o dilatorie, non necessariamente liquidatorie – l’alienazione di beni d’impresa, l’operazione può dare luogo al realizzo di plusvalenze imponibili (o minusvalenze deducibili): qualora si verifichi l’ipotesi plusvalente, spesso riscontrabile in presenza di cespiti caratterizzati da un avanzato stato di ammortamento fiscale, l’operazione può determinare l’emersione di un rilevante costo fiscale, che sottrae risorse alla soddisfazione dei creditori.

domenica 29 luglio 2012

Detrazione Iva immediata nella "nuova" Iva per cassa

di Sandro CERATO

Un emendamento al D.L. n. 83/2012, approvato dalla Camera nei giorni scorsi, ha introdotto importanti modifiche al regime Iva per “cassa”, di cui all’art. 7 del D.L. n. 185/2008, in precedenza applicabile solamente agli operatori con volume d’affari non superiore a 200.000 euro. L’art. 32-bis del D.L. n. 83/2012 (ad oggi non ancora vigente, in quanto introdotto in sede di conversione in legge), prevede le seguenti novità:
  • estensione della possibilità di avvalersi del regime Iva per cassa ai soggetti passivi con volume d’affari non superiore a 2 milioni di euro;
  • l’esercizio del diritto alla detrazione dell’imposta sugli acquisti, in capo ai soggetti che si avvalgono dell’esigibilità differita, sorge al momento del pagamento dei relativi corrispettivi;
  • il diritto alla detrazione dell’imposta in capo al cessionario o committente sorge al momento di effettuazione dell’operazione, ancorchè il corrispettivo non sia stato ancora pagato.
L’emendamento in questione è stato oggetto di pesanti critiche, soprattutto in considerazione di una possibile violazione del principio di “simmetria”, previsto dall’art. 167 della direttiva 2006/112, nella parte in cui consente di differire il versamento dell’Iva, da parte del cedente o prestatore, al momento dell’incasso del corrispettivo, fermo restando l’esercizio del diritto alla detrazione in capo al cessionario o committente sin dal momento di effettuazione dell’operazione, e quindi a prescindere dal pagamento del corrispettivo.
Tuttavia, tale “stortura” sembra il frutto della possibilità di deroga ai principi comunitari, in virtù di una dichiarazione a verbale allegata alla direttiva 2010/45/UE (cd. “direttiva fatturazione”, in vigore dal prossimo 1° gennaio 2013), secondo cui il diritto alla detrazione di un soggetto passivo che si avvale di un regime di esigibilità differita dell’Iva, qual è quello in questione, può essere posticipato fino al momenti in cui tale soggetto procede al pagamento dell’imposta nei confronti del proprio fornitore o prestatore. In altre parole, quello che fino a ieri era la caratteristica dell’Iva per “cassa”, ossia una simmetria “intersoggettiva” tra cedente/prestatore e cessionario/committente in relazione rispettivamente al versamento ed alla detrazione dell’imposta, il D.L. n. 83/2012 propone una simmetria “intrasoggettiva”, in quanto consente di posticipare il versamento dell’imposta addebitata per rivalsa all’atto dell’incasso della stessa, ma nel contempo differisce il diritto alla detrazione dell’imposta assolta sugli acquisti all’atto dell’effettivo pagamento. A fronte di ciò, in capo al committente/cessionario del soggetto che si avvale dell’Iva per cassa, l’emendamento approvato consente, come detto, di detrarre l’Iva secondo le regole ordinarie, ossia sin dal momento di effettuazione dell’operazione, ed a prescindere quindi dall’effettivo pagamento dell’imposta.
Come anticipato, l’ulteriore modifica è di carattere “dimensionale”, poiché viene decisamente innalzato il volume d’affari entro cui il soggetto passivo può avvalersi della facoltà di differire l’esigibilità dell’imposta. Si passa, infatti, da un volume d’affari fino ad euro 200.000 (decisamente basso), ad un volume fino a 2.000.000 di euro, con conseguente potenziale coinvolgimento di una platea maggiore di soggetti interessati.
Infine, si legge nell’emendamento approvato, sono confermate alcune regole già presenti in passato, ed in particolare:
  • la facoltà di avvalersi dell’Iva per cassa è preclusa ai soggetti che si avvalgono di regimi speciali, né può essere applicata in relazione alle operazioni soggette al regime del reverse charge;
  • l’imposta diviene comunque esigibile decorso un anno dal momento di effettuazione dell’operazione, salvo che prima de decorso di tale termine il cessionario o committente non sia stato assoggettato a procedure concorsuali, nel qual caso il differimento continua ad operare.
Vedremo se queste novità daranno un impulso all’utilizzo dell’Iva per cassa, oppure resterà lettera morta.

giovedì 26 luglio 2012

Concessione all’amministratore del veicolo aziendale

di Michele BANA

Nel caso di assegnazione in uso, ad un componente dell’organo di gestione, di un’autovettura di proprietà della società, o di cui questa ha la disponibilità a diverso titolo (leasing, noleggio, ecc.), deriva il diverso regime di deducibilità dei costi ad essi relativi, a seconda della tipologia di utilizzo:
esclusivamente personale: a norma dell’art. 164 del Tuir, le spese ed ogni altro componente negativo non sono deducibili per la società. I costi relativi a tali veicoli possono, tuttavia, rilevare – ai sensi dell’art. 95, co. 5, del D.P.R. n. 917/1986 – per la parte del loro ammontare che costituisce compenso in natura dell’amministratore, in base al criterio del valore normale;
promiscuo: anche in questa ipotesi la deducibilità integrale di costi e spese è limitata all’importo corrispondente al fringe benefit tassato in capo all’amministratore. L’eventuale eccedenza è deducibile nella determinazione del reddito d’impresa nella misura parziale di cui all’art. 164, co. 1, lett. b) del Tuir, così come modificato dall’art. 4, co. 72, della Legge 28 giugno 2012, n. 92: 40% sino al periodo d’imposta in corso al 18 luglio 2012, e 27,50% a partire dall’esercizio successivo (co. 73).
Sul punto, l’Amministrazione Finanziaria ha precisato che le regole di quantificazione del compenso in natura per l’uso promiscuo dell’autovettura aziendale – con riferimento ai percettori di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, previsti dall’art. 50, co. 1, lett. c-bis), del Tuir, inclusi gli amministratori aventi un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa – sono analoghe a quelle stabilite per i redditi di lavoro dipendente (C.M. n. 1/E/2007). Conseguentemente, il compenso in natura oggetto di tassazione in capo all’amministratore, e derivante dalla messa a disposizione ad uso promiscuo dell’autovettura aziendale, deve ritenersi pari al 30% dell’importo corrispondente ad una percorrenza convenzionale di 15.000 chilometri, calcolato sulla base del costo chilometrico di esercizio desumibile dalle tabelle nazionali elaborate dall’Aci (art. 51, co. 4, lett. a), del D.P.R. n. 917/1986). L’assimilazione al lavoro dipendente riguarda esclusivamente la determinazione del reddito imponibile dell’amministratore, e non anche il regime di deducibilità dei relativi costi in capo alla società: conseguentemente, quest’ultima applica l’art. 164, co. 1, lett. b), del Tuir;
esclusivamente aziendale: le spese ed ogni altro componente negativo relativo all’utilizzo del veicolo sono parzialmente deducibili, purchè vi sia inerenza con l’esercizio dell’impresa, secondo la medesima quota di cui al punto precedente (40% sino al periodo d’imposta in corso al 18 luglio 2012, e 27,50% a partire dall’esercizio successivo), qualora non siano configurabili le fattispecie di integrale deducibilità di cui all’art. 164, co. 1, lett. a), del Tuir.

Mancata iscrizione al Vies e trattamento Iva delle operazioni: circolare Assonime n. 21 del 26 luglio 2012

di Sandro CERATO

Con la Circolare n. 21, emanata questo pomeriggio, Assonime riprende la questione del trattamento Iva delle operazioni intracomunitarie poste in essere, in qualità di cedente o cessionario, in assenza di iscrizione all’elenco Vies. La questione, che era già stata affrontata da Assonime nelle circolari nn. 16 e 25 del 2011, soprattutto a commento della C.M. n. 39/E/2011, assume ancora connotati di attualità dopo la presa di posizione dell’Agenzia delle Entrate nella recente R.M. 27.4.2012, n. 42/E.
Due sono gli aspetti interessanti affrontati da Assonime, il primo dei quali riguarda il trattamento Iva dell’operazione intracomunitaria effettuata nelle “more” della richiesta di iscrizione al Vies, ossia nei trenta giorni intercorrenti tra l’invio dell’istanza (per i soggetti già in attività), o la data di presentazione del modello di inizio attività (per coloro che iniziano l’attività), e la formazione del slienzio-assenso da parte dell’Amministrazione Finanziaria in assenza di diniego esplicito da parte dell’Amministrazione.
In tale periodo, secondo l’Agenzia (C.M. n. 39/E/2011 e R.M. n. 42/E/2012), il soggetto Iva nazionale non può ritenersi legittimato ad applicare il regime Iva proprio degli scambi intracomunitari, di cui al D.L. 331/93, bensì deve applicare quello ordinario previsto dal DPR 633/72. Assonime critica tale impostazione, richiamando l’art. 18 del regolamento n. 282/2011 (entrato in vigore il 1° luglio 2011), secondo cui lo status di soggetto passivo Iva, rilevante per determinare il luogo di tassazione delle prestazioni di servizi “generiche” di cui all’art. 7-ter del DPR 633772, può essere provato anche con modalità alternative al sistema Vies. Inoltre, sostiene Assonime, per venire incontro alle esigenze degli operatori, ed evitare che gli stessi debbano attendere 30 giorni per poter porre in essere operazioni intracomunitarie, applicando il relativo trattamento Iva previsto dalle disposizioni del D.L. 331/93, potrebbe essere opportuno riconoscere la possibilità ai soggetti in questione di applicare la disciplina degli scambi intracomunitari sin dal momento in cui è richiesta l’autorizzazione, “fermo restando il successivo recupero dell’imposta non applicata qualora l’Amministrazione accerti che il soggetto richiedente non sia in possesso dei requisiti di affidabilità richiesti per effettuare le operazioni di cui si tratta”.
La seconda questione affrontata da Assonime, nel documento in commento, riguarda in genere il regime Iva da applicare in assenza di regolare iscrizione al Vies, soprattutto in relazione alla fattispecie dell’acquisto posto in essere dal soggetto Iva nazionale presso una controparte soggetto Iva in altro Stato Ue.
Secondo l’Agenzia delle Entrate (R.M. n. 42/E/2012), tali operazioni non possono essere qualificati come acquisti intracomunitari, bensì rientrano tra le operazioni interne rilevanti ai fini Iva nel Paese del cedente Ue, con la conseguenza che l’imposta non è dovuta in Italia, in quanto già assolta in altro Stato Ue. Corollario di tale impostazione è la questione relativa alla possibilità di richiedere il rimborso dell’imposta assolta nello Stato comunitario del cedente da parte dell’acquirente nazionale. Sul punto, l’Agenzia, nel corso di un forum organizzato con la stampa specializzata aveva negato tale possibilità, nella considerazione che il soggetto in questione, nella specifica operazione, non riveste la qualifica di soggetto passivo d’imposta, posto che l’art. 38-bis1 del DPR 633/72 richiede, quale requisito per ottenere il rimborso, il possesso di tale qualifica. Secondo Assonime, che correttamente rileva che il chiarimento fornito dall’Agenzia non è successivamente stato ufficializzato nella C.M. n. 25/E/2012, in cui sono stati raccolti i diversi quesiti posti nel corso dell’incontro, se pure la posizione dell’Agenzia trova conforto anche nella giurisprudenza della Corte Ue (sentenza 15.3.2007, causa C-35/05), secondo cui solamente il soggetto che pone in essere l’operazione sarebbe legittimato a richiedere il rimborso, è altrettanto agevole osservare che tale tesi potrebbe indurre gli operatori nazionali, senza diritto alla detrazione o con detrazione limitata, ad acquistare presso fornitori Ue beni o servizi senza iscriversi al Vies, così da assolvere l’imposta solamente nello Stato del cedente/prestatore in cui vigono aliquote ridotte o particolari agevolazioni.
Infine, per quanto riguarda le operazioni attive effettuate da soggetti Iva nazionali, non iscritti al Vies, nei confronti di operatori soggetti passivi in altri Stati Ue, l’operazione è da qualificare come “interna” ed assoggettata ad Iva in Italia. Sul punto, precisa Assonime, dovrebbe essere precluso, specularmente, il diritto al rimborso dell’imposta subita in Italia dall’operatore Ue, e ciò sulla scorta del riportato indirizzo della Corte Ue. Tuttavia, a parere di chi scrive, in tale ipotesi difficilmente l’operatore comunitario accetterà l’addebito dell’Iva, ragion per cui preferirà acquistare presso un altro fornitore, con evidente danno “commerciale” per l’operatore nazionale.

mercoledì 25 luglio 2012

Utilizzo dell'auto aziendale da parte del dipendente: novità dal 2013

di Michele Bana

La fattispecie della concessione al lavoratore subordinato, in uso promiscuo, di un veicolo aziendale – ipotesi contemplata dalla successiva lett. b-bis) del co. 1 dell’art. 164 del Tuir –ricorre quando il relativo utilizzo è previsto per scopi aziendali e personali: l’ulteriore vincolo della “maggior parte del periodo d’imposta” indica che l’assegnazione deve avvenire per un arco temporale non inferiore a 184 giorni. La C.M. n. 48/E/1998 ha, infatti, chiarito che si considera “dato in uso promiscuo al dipendente per la maggior parte del periodo d’imposta il veicolo utilizzato dallo stesso per la metà più uno dei giorni che compongono il periodo d’imposta del datore di lavoro”. Qualora siano soddisfatte tali condizioni, la società deduce, senza alcun limite massimo, i costi sostenuti nella misura del 90% sino al periodo d’imposta in corso al 18 luglio 2012: nei successivi esercizi, la quota fiscalmente rilevante scende al 70% in virtù di quanto disposto dall’art. 4, co. 72 e 73 della Legge n.  92/2012. Sul punto, l’Agenzia delle Entrate ha, inoltre, precisato che l’uso promiscuo non deve necessariamente essere avvenuto in modo continuativo, né ad opera di un solo dipendente, e che tale regime di deducibilità è applicabile a tutti i costi riferibili al veicolo concesso al dipendente, in uso promiscuo, per la maggior parte del periodo d’imposta, e non soltanto a quelli che eccedono l’importo del fringe benefit tassato in capo al lavoratore (C.M. n. 47/E/2008, par. 5.1).

Esempio
La Alfa s.r.l. acquista, in data 1° febbraio 2013, un’autovettura da concedere in uso promiscuo ad un dipendente, per la maggior parte del periodo d’imposta, il cui costo è di euro 30.000,00 (Iva indetraibile inclusa). Tale importo è riconosciuto integralmente ai fini fiscali – anche se supera la soglia di euro 18.075,99 – e, ai fini del calcolo della quota di ammortamento deducibile, deve essere assunto per il 70% del proprio importo, a prescindere dall’ammontare del compenso in natura assoggettato ad imposizione, nei confronti del lavoratore: conseguentemente, nel periodo d’imposta 2013, esercizio di entrata in funzione del bene, la quota di ammortamento – determinata sulla base dell’aliquota del 25% di cui al D.M. 31 dicembre 1988 – è deducibile per euro 2.625, ovvero la metà di quella ordinaria (euro 30.000*70%*25%/2).

Sul punto, si osservi, tuttavia, che la soluzione sostenuta dall’Amministrazione Finanziaria pare contraddire un principio dalla stessa formulato, fondato sull’integrale deducibilità – a norma dell’art. 95 del Tuir – dei costi sostenuti fino a concorrenza del fringe benefit assoggettato ad imposizione in capo al lavoratore dipendente.
Qualora il bene non sia concesso in uso promiscuo, possono ricorrere due ipotesi alternative di assegnazione:
·     utilizzo esclusivamente aziendale: trovano applicazione i principi generali dell’art. 164, co. 1, del Tuir, ovvero l’integrale deducibilità di cui alla lett. a) se il bene è strumentale all’attività propria dell’impresa, oppure in base al coefficiente di rilevanza parziale previsto dalla lett. b) nel rispetto della soglia di costo stabilito dalla medesima disposizione;
·     utilizzo solo personale: la società può dedurre i costi a norma dell’art. 95 del Tuir, nel limite del compenso in natura assoggettato ad imposizione in capo al lavoratore dipendente.
Qualora un dipendente rivesta, per lo stesso periodo, anche la carica di amministratore, e che tale ufficio rientri nei compiti istituzionali compresi nell’attività di lavoro dipendente, i redditi percepiti in relazione a tale qualità sono attratti nel reddito di lavoro dipendente. In questo caso, poiché tutte le somme e i valori percepiti saranno qualificati e determinati come redditi di lavoro dipendente, si deve ritenere che – anche ai fini della deduzione dei costi dei veicoli da parte dell’impresa – trovino applicazione le disposizioni dell’art. 164 del D.P.R. n. 917/1986 (C.M. n. 1/E/2007). In particolare, i costi relativi all’autovettura concessa in uso promiscuo, per la maggior parte del periodo d’imposta, sono deducibili dall’impresa nel limite individuato dal co. 1, lett. b-bis), del Tuir, norma anch’essa modificata dalla Legge n. 92/2012:
·     90% sino al periodo d’imposta in corso al 18 luglio 2012;
·     70% a partire dall’esercizio successivo.

MOL positivo: disapplicazione della disciplina delle società non operative in perdita triennale

di Sandro CERATO

Secondo quanto disposto dall’art. 2, co. 36-decies, del D.L. 138/2011, si considerano non operative:
  • le società e gli enti previsti nell’art. 30, co. 1, della Legge n. 724/94, che pur essendo operativi (in quanto hanno superato il “test di operatività”), sono considerati di comodo se presentano dichiarazioni in perdita fiscale per tre periodi d’imposta consecutivi. Verificatasi tale condizione, e pur rimanendo ferme eventuali cause di esclusione o di inapplicabilità della disciplina delle società non operative, a partire dal quarto periodo d’imposta successivo i soggetti in questione sono soggetti alla disciplina dell’art. 30, co. 1, della Legge n. 724/94;
  • le società e gli enti che, pur essendo operativi (in quanto hanno superato il “test di operatività”), nell’arco temporale del triennio di cui sopra, siano per due periodi d’imposta in perdita fiscale e nel terzo anno abbiano dichiarato un reddito inferiore a quello minimo previsto dall’art. 30 della Legge 724/94 (a tale proposito, si rinvia a quanto detto nei paragrafi precedenti).
In buona sostanza, l’obiettivo del legislatore è di colpire anche quelle società che, pur superando il “test di operatività”, in quanto realizzano ricavi e proventi almeno pari a quelli richiesti applicando le percentuali forfetarie ai beni iscritti in bilancio (si rimanda alla parte generale per maggiori approfondimenti), dichiarano perdite per effetto di costi maggiori. Probabilmente, l’intento è di evitare l’aggiramento della disciplina delle società non operative, operando con l’imputazione di costi particolarmente elevati, sia pure a fronte di ricavi sufficienti. Le due fattispecie descritte sono simili, in quanto entrambe focalizzano l’attenzione sull’arco temporale di un triennio, all’interno del quale:
  • se per tutti e tre i periodi d’imposta (consecutivi), la società dichiara una perdita fiscale, scatta l’obbligo di dichiarare il reddito minimo presunto previsto dall’art. 30 della Legge n. 724/94;
  • se per due periodi d’imposta all’interno del triennio di cui sopra, la società dichiara una perdita fiscale, e nel terzo anno (uno qualsiasi all’interno del triennio) dichiara invece un reddito imponibile, ma inferiore a quello minimo richiesto dall’art. 30 della Legge n. 724/94, la stessa deve dichiarare tale maggior reddito minimo.
Per attenuare l’effetto delle diposizioni sopra ricordate, è intervenuto il provvedimento direttoriale 11 giugno 2012, in cui sono state individuate determinate situazioni oggettive al ricorrere delle quali è possibile disapplicare la disciplina delle società in perdita sistematica senza dover presentare istanza di interpello. Ai sensi della lett. f) del predetto provvedimento direttoriale, è prevista una causa di disapplicazione per le società che conseguono un margine operativo lordo (MOL) positivo in almeno uno dei tre periodi d’imposta del triennio di osservazione (per il primo periodo d’imposta di applicazione della disciplina delle società in perdita sistematica, ossia il 2012, il triennio di osservazione è costituito dai periodi d’imposta dal 2009 al 3011).
In tale ambito, il MOL è costituito dalla differenza tra il valore della produzione, di cui alla lettera A) del conto economico, ed i costi della produzione, di cui alla lett. B), dello stesso conto economico, senza tuttavia tener conto delle voci relative ad ammortamenti, svalutazioni ed accantonamenti, di cui ai numeri 10), 12) e 13).
La presente causa di disapplicazione è interessante in quanto “sposta” l’oggetto della verifica, in quanto nonostante la perdita fiscale, la società potrebbe risultare operativa per il fatto di presentare un MOL positivo (come detto, è sufficiente che tale verifica dia esito positivo in almeno uno dei periodi d’imposta che compongono il triennio). Sembra tuttavia che tale causa di esclusione, che scatta quando il MOL è maggiore di zero, possa essere particolarmente apprezzabile da parte di quelle società, soprattutto del settore immobiliare, che sono penalizzate per effetto del peso degli oneri finanziari, i quali sono collocati nell’area C) del conto economico, influenzando in tal modo il risultato finale, ma non anche il margine operativo lordo, che potrebbe quindi prenotarsi positivo ed evitare la “tagliola” in esame.
Sul punto, tuttavia, è opportuno segnalare che le società che detengono beni in locazione finanziaria, e che conseguentemente imputano nella voce B8) del conto economico i relativi canoni di leasing (comprensivi della quota interessi), non possono scomputare gli stessi nella determinazione del MOL, atteso che  il provvedimento direttoriale, come visto, riconosce in diminuzione dall’aggregato B (con conseguente aumento del MOL) solamente gli ammortamenti. Tale “discriminazione” appare del tutto discriminatoria nei confronti delle imprese che “acquisiscono” i beni tramite contratti di leasing, e nel contempo poco coerente con altre disposizioni normative che prendono come base di riferimento un risultato intermedio di conto economico. Si pensi, ad esempio, alla determinazione del ROL, di cui all’art. 96 del TUIR, quale parametro di riferimento per il calcolo degli interessi deducibili dalle società di capitali, per il cui conteggio l’aggregato B del conto economico deve essere depurato degli ammortamenti e dei canoni di leasing, in modo tale da non penalizzare le società che intendono acquisire i beni strumentali tramite tali contratti.

lunedì 23 luglio 2012

Autoveicoli concessi in godimento ai soci o familiari: il pensiero dell'Agenzia

di Sandro CERATO
L’Agenzia delle Entrate, con la C.M. 15.6.2012, n. 24/E, ha fornito i primi interessanti chiarimenti in merito all’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 2, co. da 36-terdecies a 36-duodevicies, del D.L. 138/2011, secondo cui in caso di assegnazione in godimento ai soci, o familiari dei soci o dell’imprenditore, di beni aziendali, verso un corrispettivo inferiore al valore normale, si producono le seguenti conseguenze:
  • tassazione, quale reddito diverso in capo al socio o familiare, persona fisica, della differenza tra il valore normale del diritto di godimento del bene ed il corrispettivo (eventualmente) pagato dall’utilizzatore;
  • indeducibilità in capo alla società o all’impresa che assegna il bene, di tutti i costi relativi al bene.
In merito a tale ultimo aspetto, l’Agenzia ritiene che l’indeducibilità riguardi non solo i costi sostenuti per l’acquisto del bene, ovvero i canoni di locazione, ma anche le altre spese sostenute per la detenzione del bene stesso, quali i costi di manutenzione ordinaria straordinaria, le spese di gestione e tutte le altre spese connesse. Tuttavia, in deroga a quanto detto, la C.M. n. 24/E conferma una posizione che già in dottrina era stata più volte sostenuta sin dalla nascita della disposizione in questione, ossia che l’indeducibilità in capo alla società o impresa che assegna il bene non si applica in tutte quelle ipotesi in cui il TUIR prevede già una limitazione alla deducibilità dei costi. Esempio tipico, ricordato dall’Agenzia, è quello riferito agli autoveicoli di cui all’art. 164 del TUIR (lo stesso, tuttavia, può dirsi per la telefonia), che sancisce come noto una deduzione limitata di tutti i costi (ammortamento, leasing, noleggio e spese di impiego) del 40% o dell’80% a seconda del soggetto utilizzatore. In tali ipotesi, infatti, il legislatore ha già “messo in conto” un utilizzo anche privato (e quindi non inerente allo svolgimento dell’attività) per questi beni, e per evitare discussioni sulla quota di utilizzo aziendale o privato degli stessi ha forfetizzato la quota deducibile.
Se la posizione espressa dall’Agenzia, come detto, non fa altro che confermare quanto già anticipato e sostenuto dalla dottrina, particolare stupore ha suscitato la successiva affermazione contenuta nella C.M. n. 24/E, in merito all’applicazione dell’art. 67, co. 1, lett. h-ter), sulla tassazione in capo al socio o familiare utilizzatore del bene, per la differenza tra valore normale e corrispettivo pagato, secondo cui la predetta tassazione si applica in ogni caso, “a prescindere dalla circostanza che il bene sia assoggettato ad un regime di limitazione della deducibilità prevista nell’ambito del TUIR in capo al soggetto concedente”. In altre parole, secondo l’Agenzia, per i beni a deducibilità limitata, la disapplicazione della disciplina in esame opererebbe solamente per evitare l’indeducibilità assoluta dei costi in capo all’impresa, ma non anche per tassare il socio o familiare utilizzatore del bene.
Tale presa di posizione, a parere di chi scrive, è criticabile, atteso che, se da un lato appare corretto tassare in capo al socio o familiare il bene utilizzato per scopi personali, in quanto non sussiste il requisito dell’inerenza, dall’altro è altrettanto vero che se nell’ambito del TUIR vi sono disposizioni che già limitano la deduzione, ciò significa che quel bene (legittimamente) è già utilizzato anche per scopi non inerenti all’attività d’impresa, e la quota di utilizzo privato è già stata “incorporata” in termini di minore deducibilità dei relativi costi in capo all’impresa. Ora, sostenere che alla deduzione limitata si affianca anche una tassazione in capo all’utilizzatore, significa introdurre una fattispecie di doppia tassazione, vietata dal nostro ordinamento tributario. Sarebbe pertanto corretto ipotizzare due fattispecie:
  • beni assegnati ai soci o familiari, che non presentano limitazioni alla deduzione dei relativi costi: in tale caso, trattandosi di beni utilizzato per scopi non inerenti all’attività propria dell’impresa, i costi sono interamente indeducibili ed in capo all’assegnatario si realizza un reddito diverso pari alla differenza tra valore normale e corrispettivo eventualmente pagato dall’utilizzatore (non si realizza alcuna fattispecie di doppia tassazione, poiché il bene è “estraneo” all’impresa in quanto utilizzato solo dal socio);
  • beni assegnati ai soci o familiari, per i quali sussistono norme del TUIR che (pre)determinano la quota di costi deducibili: in tal caso, posto che lo steso legislatore tiene conto che trattasi di beni che sono utilizzati anche per fini privati, ha tenuto conto di ciò nella determinazione della quota deducibile, ragion per cui non appare giustificata la tassazione in capo al soggetto utilizzatore, in quanto già “incorporata” nella percentuale indeducibile per la società o impresa.
Resta fermo, precisa l’Agenzia, che la disposizioni di cui all’art. 67, co. 1, lett. h-ter), del TUIR, “non trova applicazione, invece, quando il soggetto utilizzatore sia al contempo dipendente della società o dell’impresa individuale, ovvero, sia lavoratore autonomo, in quanto, in queste ipotesi l’utilizzatore è assoggettato alla disciplina di tassazione prevista dagli articoli 51 e 54 del TUIR”.

domenica 22 luglio 2012

Partite Iva monocommittenti con rischio riqualificazione del rapporto

di Michele Bana

La recente Riforma del mercato del lavoro, sebbene fondata sulla soluzione di diverse problematiche occupazionali, ha introdotto alcune rilevanti novità fiscali (redditi da locazioni immobiliari e deduzioni dei costi dei veicoli aziendali), o comunque afferenti il comparto tributario. Con riferimento a queste ultime, si segnala in particolare l’introduzione – ad opera dell’art. 1, co. 26, della Legge n. 92/2012 – dell’art. 69-bis del D.Lgs. n. 276/2003, secondo cui le prestazioni lavorative rese da una persona titolare di una posizione fiscale ai fini Iva sono considerate – salvo che sia fornita prova contraria dal committente – rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, qualora ricorrano almeno due dei seguenti presupposti:
a)    la collaborazione ha una durata complessivamente superiore, nell’arco dell’anno solare, a 8 mesi. A questo proposito, si segnala, tuttavia, che è stato proposto un emendamento (AC5312) al D.L. n. 83/2012, che prevede una modifica della suddetta disposizione, in virtù della quale la collaborazione con il medesimo committente, ai fini dell’operatività della presunzione, dovrebbe avere “una durata complessiva superiore a otto mesi annui per due anni consecutivi”;
b)   il corrispettivo derivante dalla collaborazione di cui al punto precedente, anche se fatturato a più soggetti riconducibili al medesimo centro d’imputazione d’interessi, rappresenta più dell’80% dei corrispettivi totali percepiti dal collaboratore nel corso del medesimo anno solare. Analogamente al precedente punto, il citato emendamento propone una modifica, sostanzialmente raddoppiando il periodo di sorveglianza: in caso di recepimento, in sede di conversione del Decreto Crescita e Sviluppo, il predetto parametro percentuale dovrebbe, infatti, essere considerato con riferimento ai corrispettivi annui complessivamente percepiti dal collaboratore nell’arco di due anni solari consecutivi”;
c)    il collaboratore dispone di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi del committente.
Tale presunzione è applicabile esclusivamente ai rapporti instaurati successivamente al 18 luglio 2012, ovvero, per quelli in corso a tale data, decorsi 12 mesi dalla stessa. Sono, tuttavia, stabilite delle autonome ipotesi di non operatività della predetta presunzione, riconducibili ad uno dei seguenti aspetti:
1)   le caratteristiche della prestazione lavorativa: è connotata da competenze teoriche di grado elevato, acquisite tramite significativi percorsi formativi, ovvero da capacità tecnico-pratiche conseguite mediante rilevanti esperienze maturate nell’esercizio concreto di attività. È, inoltre, necessario che la prestazione lavorativa sia svolta da un soggetto titolare di un reddito annuo da lavoro autonomo non inferiore a 1,25 volte il livello minimo imponibile ai fini del versamento dei contributi previdenziali di cui all’art. 1, co. 3, della Legge n. 233/1990, ovvero – con riferimento al periodo d’imposta 2012 – almeno pari ad euro 18.663;
2)   l’ambito di svolgimento della prestazione lavorativa: è resa nell’esercizio di attività professionali per le quali l’ordinamento richiede l’iscrizione ad un ordine professionale, ovvero ad appositi registri, albi, ruoli od elenchi professionali qualificati, e detta specifici requisiti e condizioni. L’individuazione di tali attività sarà operata da un successivo Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, da emanare entro il 18 ottobre 2012, sentite le parti sociali. Questa causa di esclusione riguarda, tuttavia, le sole collaborazioni coordinate e continuative il cui contenuto concreto sia riconducibile alle attività professionali intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi. Al di fuori di questa ipotesi di esonero, l’iscrizione all’elenco professionale non costituisce, di per sé, una circostanza idonea a legittimare l’esclusione dell’operatività della suddetta presunzione.
Qualora le citate esimenti non siano invocabili, gli oneri contributivi, derivanti dall’obbligo di iscrizione alla gestione separata dell’Inps (art. 2, co. 26, della Legge n. 335/1995), sono a carico del committente nella misura dei due terzi, mentre il restante un terzo grava sul collaboratore, il quale – nel caso in cui la legge gli imponga l’assolvimento dei relativi obblighi di pagamento – ha il relativo diritto di rivalsa nei confronti del committente.

giovedì 19 luglio 2012

Fedeltà dei dati degli studi di settore per accedere al regime premiale

di Sandro Cerato

Il periodo d’imposta 2011, oggetto di dichiarazione nel modello Unico 2012, è il primo anno di applicazione del nuovo regime premiale per i soggetti congrui e coerenti alle risultanze degli studi di settore, inserito dall’art. 10, co. 9 e 10, del D.L. n. 201/2011. Rinviando ad un precedente intervento per l’individuazione dei soggetti che possono accedere al predetto regime premiale, in considerazione delle importanti limitazioni introdotte dal recente provvedimento direttoriale del 12 luglio scorso, in questa sede si intende focalizzare l’attenzione sulla questione della “fedeltà” dei dati indicati nel modello degli studi di settore, quale condizione necessaria per poter accedere ai benefici previsti dall’art. 10 del D.L. 2012/2011. In particolare, l’art. 10, co. 10, lett. a), del D.L. 201/2011, dispone che i benefici in questione si applicano a condizione che “il contribuente abbia regolarmente assolto gli obblighi di comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell'applicazione degli studi di settore, indicando fedelmente tutti i dati previsti”. In altre parole, il regime premiale, correttamente, vuole essere garantito solamente a quei contribuenti che non abbiano “taroccato” i dati per l’applicazione degli studi di settore, e che quindi non abbiano raggiunto la congruità e la coerenza grazie ad “aggiustamenti” o indicando dati non veritieri.
L’art. 4 del provvedimento direttoriale del 12 luglio 2012 dopo aver ribadito che per accedere al regime premiale è necessario aver adempiuto regolarmente agli obblighi di comunicazione dei dati relativi agli studi di settore, e che tali dati siano stati indicati in modo fedele, contiene alcune precisazioni sul concetto di “fedeltà” dei dati. In particolare, il punto 4.2 del provvedimento enuncia un principio di carattere generale particolarmente rilevante, poiché ritiene sussistente la fedeltà dei dati anche laddove siano stati commessi degli errori nella compilazione dei modelli, purché i dati indicati non comportino la modifica:
  • dell’assegnazione del cluster;
  • del calcolo dei ricavi o dei compensi stimati;
  • del posizionamento rispetto agli indicatori di normalità e di coerenza.
In base a quanto indicato nel predetto provvedimento, quindi, l’infedeltà dei dati potrebbe derivare non solo nell’ipotesi in cui siano indicati dati non veritieri (si pensi, ad esempio, al valore dei beni strumentali appositamente depresso per ottenere un minor ricavo puntuale), nel qual caso non sembrano sussistere dubbi sul fatto che modificando la funzione di ricavo puntuale di Gerico al contribuente non spetti alcun effetto premiale, ma anche nelle fattispecie in cui un determinato dato sia allocato in un rigo diverso da quello corretto. In particolare, sovente accade che il soggetto che compila il modello degli studi di settore, in base alle istruzioni fornite, non sia in grado di individuare oggettivamente il rigo del quadro F o G in cui indicare un determinato valore. E’ evidente che la scelta di collocare tale valore in un rigo, piuttosto che un altro, può determinare sia un differente impatto sulla funzione di ricavo puntuale, sia l’assegnazione di un differente cluster di appartenenza, sia un diverso posizionamento rispetto agli indicatori di normalità economica e di coerenza. In tal caso, tuttavia, sarebbe possibile sostenere che non vi è stato alcun “taroccamento” dei dati, poiché il soggetto che compila il modello ha incontrato delle difficoltà interpretative sulla corretta allocazione di un dato contabile, senza che ciò possa essere necessariamente un comportamento che porti ad un’infedele compilazione del modello. Sul punto, tuttavia, sarebbe opportuno un intervento dell’Agenzia delle Entrate che individui in maniera più puntuale e completa le fattispecie di “fedeltà” ed “infedeltà” dei dati degli studi di settore, così da consentire ai contribuenti una maggior certezza di poter ottenere gli effetti premiali previsti dal D.L. n. 201/2011.

mercoledì 18 luglio 2012

Locazione, leasing e noleggio di autoveicoli dopo la riforma del lavoro

di Michele Bana

La disciplina prevista dall’art. 164, co. 1, lett. b), del D.P.R. n. 917/1986, i cui principi generali sono stati esaminati in un precedente intervento, è applicabile ai componenti negativi di reddito relativi a tutti i veicoli aziendali diversi da quelli destinati esclusivamente come strumentali nell’attività propria dell’impresa, oppure adibiti ad uso pubblico, o concessi ai dipendenti, in uso promiscuo, per la maggior parte del periodo d’imposta. La disposizione – e, quindi, pure il novellato coefficiente di deduzione (27,50% dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 18 luglio 2012) – è, pertanto, applicabile anche ai casi di locazione o noleggio, assumendo come costo di riferimento quello non eccedente i seguenti limiti:
·     euro 3.615,20 per le autovetture e autocaravan;
·     euro 774,69 per i motocicli;
·     euro 413,17 per i ciclomotori.
L’eventuale eccedenza imputata a conto economico è, quindi, definitivamente indeducibile, mentre l’ammontare che non supera le predette soglie rileva soltanto per il 40% sino al periodo d’imposta in corso al 18 luglio 2012, e nella misura del 27,50% dall’esercizio successivo.

Esempio
Si consideri che la Alfa s.r.l. sostenga, nel periodo d’imposta 2013, canoni di noleggio di un’autovettura di cui all’art. 164, co. 1, lett. b), del Tuir, per euro 4.000 in virtù di un contratto stipulato il 2 ottobre 2013, e scadente il successivo 31 dicembre 2013. Gli effetti dell’operazione, ai fini dell’imposizione diretta, sono i seguenti:
·     il costo fiscalmente riconosciuto (euro 3.615,20) deve essere ragguagliato alla frazione di periodo d’imposta di competenza (90 giorni), ed è, quindi, pari ad euro 891,42;
·     la spesa individuata al punto precedente rileva, tuttavia, soltanto nella misura del 27,50% e, pertanto, per euro 245,14;
·     il costo imputato a conto economico (euro 4.000) è, dunque, fiscalmente indeducibile per euro 3.754,86.
Si rammenta, inoltre, che per i contratti “full service” – nei quali il canone di noleggio complessivo è comprensivo anche dei corrispettivi per le prestazioni accessorie quali, ad esempio, l’assicurazione, la manutenzione ordinaria, la sostituzione del veicolo in caso di guasto e la tassa di proprietà – nel calcolo del costo massimo deducibile il canone di noleggio deve essere considerato al netto dei costi riferibili alle prestazioni accessorie. A tal proposito, dovrà essere indicato in contratto, o in altra documentazione separata, la quota della tariffa di noleggio “depurata delle spese per i servizi accessori di cui si fruisce” (C.M. n. 48/E/1998): in mancanza, la tariffa corrisposta dovrà essere considerata unitariamente, e rileverà per intero ai fini del raggiungimento della soglia posta dal legislatore.
Nel caso del leasing, trovano, invece, applicazione i medesimi limiti di costo di cui all’art. 164, co. 1, lett. b), del D.P.R. n. 917/1986:
·     euro 18.075,99 per le autovetture e gli autocaravan (elevato ad euro 25.822,84 con riguardo ai soggetti esercenti attività di agenzia o di rappresentanza di commercio);
·     euro 4.131,66 per i motocicli;
·     euro 2.065,83 per i ciclomotori.
Tali limiti devono essere considerati ai fini della deducibilità dei canoni di competenza, in quanto sono irrilevanti per l’importo proporzionalmente corrispondente al costo del veicolo eccedente i predetti limiti. In altri termini, il costo deducibile deriva dal prodotto di tre componenti:
1)   l’importo dei canoni imputati a conto economico, in base al principio di competenza, senza, quindi, includere il prezzo stabilito per il riscatto;
2)   il rapporto tra il limite di costo di cui all’art. 164, co. 1, lett. b), del Tuir e quello sostenuto dal concedente (al lordo dell’Iva eventualmente indetraibile);
3)   il corrispondente coefficiente di deducibilità, che nel caso delle imprese, come già illustrato, è pari al 40% sino al periodo d’imposta in corso al 18 luglio 2012, ed al 27,50% dall’esercizio successivo.

Esempio
Si ipotizzi che la Beta s.p.a. stipuli un contratto di leasing di un’autovettura di cui all’art. 164, co. 1, lett. b), del Tuir, avente durata dal 1° gennaio 2013 al 31 dicembre 2014: il costo fiscale del bene è euro 25.000 mentre i canoni di locazione finanziaria ammontano complessivamente ad euro 30.000.
I canoni di leasing rilevano, pertanto, fiscalmente nella misura del 72,30% derivante dal rapporto tra il limite fiscale di euro 18.075,99 ed il costo fiscale per il concedente euro 25.000. Conseguentemente, i canoni contrattuali rilevano, sotto il profilo tributario per euro 21.691,19 da ripartirsi nei quattro periodi d’imposta di ammortamento fiscale del bene in base al D.M. 31 dicembre 1988, a prescindere dalla durata contrattuale (due anni), a norma del novellato art. 102, co. 7, del D.P.R. n. 917/1986 – ovvero, nel caso dei lavoratori autonomi, dell’art. 54, co. 2, del Tuir – applicabile ai contratti stipulati a partire dal 29 aprile 2012: l’importo così ottenuto è, però, deducibile sulla base dei suddetti coefficienti, ovvero nella misura del 27,50%.
Si rammenta, infine, che la previsione della disciplina speciale contenuta nell’art. 164 del Tuir comporta l’inapplicabilità dell’art. 102, co. 7, del Tuir nella parte in cui è stabilito che gli interessi passivi impliciti dei canoni di leasing partecipano, unitamente a tutti gli altri oneri finanziari, al procedimento di verifica della loro rilevanza tributaria (c.d. test di deducibilità in base al Rol), stabilito, ai fini della determinazione del reddito imponibile Ires, dall’art. 96 del D.P.R. n. 917/1986 (C.M. n. 47/E/2008, par. 5.3). Conseguentemente, gli oneri finanziari sostenuti in base a contratti di finanziamento relativi ai veicoli di cui all’art. 164 del Tuir, sono deducibili nelle seguenti misure alternative:
·     100% se i beni sono destinati ad essere utilizzati esclusivamente come beni strumentali nell’attività propria dell’impresa;
·     90% (ridotta al 70% dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 18 luglio 2012) qualora i cespiti siano stati concessi ai dipendenti, in uso promiscuo, per la maggior parte del periodo d’imposta;
·     40% (diminuita al 27,50% dall’esercizio seguente a quello corrente al 18 luglio 2012), per i veicoli a deducibilità limitata diversi dai precedenti.