giovedì 27 settembre 2012

Autovetture concesse in godimento ai soci: doppia tassazione?


di Sandro CERATO

Come abbiamo avuto modo di evidenziare in un precedente commento, la recente C.M. n. 36/E/2012, ha fornito interessanti chiarimenti in merito alla disciplina dei beni concessi in godimento ai soci e familiari di cui all’art. 2, co. da 36-terdecies a 36-duodevicies, del D.L. n. 138/2011. In questo intervento si intende focalizzare l’attenzione sulla fattispecie, alquanto frequente, dell’utilizzo (anche per scopi personali) dell’autovettura della società da parte del socio.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, anche riprendendo i contenuti della precedente C.M. n. 24/E/2012, in tal caso, si realizzano le seguenti conseguenze fiscali:
·    per la società concedente, i costi relativi al bene sono indeducibili non secondo quanto stabilito dal co. 36-quaterdecies dell’art. 2 del D.L. n. 138/2011 (che sancisce la totale indeducibilità degli stessi, salvo verificare la proporzionalità con il reddito diverso del socio), bensì secondo le disposizioni in “deroga” previste dall’art. 164 del D.P.R. n. 917/1986 (e, quindi, nella maggiore parte dei casi nella misura del 40%, che come noto si abbasserà al 27,5% a partire dal 2013);
·    in capo al socio utilizzatore (che non sia nel contempo dipendente della società, o lavoratore autonomo), il reddito diverso è determinato in base alla differenza tra valore di mercato del diritto di godimento del bene, determinabile nel caso di specie con i criteri di cui all’art. 51, co. 4, del Tuir (benefit “convenzionale” pari al 30% di 15.000 km annui in base ai costi chilometrici desumibili dalle tariffe Aci), ed il corrispettivo eventualmente pagato dal socio alla società.
Stabilita tale regola “generale”, l’Agenzia delle Entrate affronta l’ipotesi in cui il soggetto concedente sia una società “trasparente” (società di persone o società a responsabilità limitata che ha optato ex art. 116 del TUIR), nel qual caso, per effetto della predetta trasparenza si verrebbe a creare una doppia tassazione in capo al socio assegnatario, in quanto sullo stesso ricade sia il maggior reddito d’impresa (pro quota) derivante dalla ripresa a tassazione dei costi indeducibili ai sensi dell’art. 164 del TUIR, sia il reddito diverso determinato come detto in precedenza.
Sul punto, la C.M. n. 36/E/2012, al fine di “correggere” tale stortura, prevede che il reddito diverso debba essere diminuito della quota di maggior reddito di partecipazione (pari al maggiore reddito della società attribuito pro-quota al socio in funzione della propria quota di partecipazione) riveniente dalla variazione in aumento eseguita dalla società relativamente ai costi dell’autovettura.
Sul punto, prendendo atto della posizione dell’Amministrazione finanziaria, è possibile formulare alcune osservazioni:
·    in primo luogo, si ritiene che l’impostazione adottata dall’Agenzia delle Entrate sia viziata sin dall’origine, poiché la deduzione forfetaria sancita dall’art. 164 del D.P.R. n. 917/1986 è funzionale a predeterminare un utilizzo anche extra aziendale del bene, che non può quindi trovare un’ulteriore imposizione in capo al socio utilizzatore;
·    in secondo luogo, l’impegno sia pure apprezzabile dell’Amministrazione finanziaria di “mitigare” la doppia imposizione in capo ai soci di società trasparenti non risolve del tutto al questione, in quanto una sorta di doppia imposizione si realizza anche in capo alle società non trasparenti, che in relazione allo stesso presupposto, ossia la concessione in godimento di un veicolo aziendale, subiscono una doppia penalizzazione, sia in capo alla società concedente (maggior reddito d’impresa), sia in capo al socio assegnatario (reddito diverso);
·    infine, è bene evidenziare che nell’ipotesi in cui il socio di società trasparente corrisponda alla società concedente il veicolo aziendale un corrispettivo pari al valore normale determinato con i criteri previsti dall’art. 51, co. 4, del Tuir, non si realizza in capo a tale soggetto alcun reddito diverso, mentre resta ferma la penalizzazione in capo alla società, la quale deve comunque applicare le limitazioni sancite dall’art. 164 del D.P.R. n. 917/1986, in quanto trattasi di disposizione, come sostenuto dall’Agenzia, delle Entrate che deroga alla regola ordinaria prevista dalle disposizioni del D.L. n. 138/2011. Al contrario, laddove si tratti di un bene per il quale non vi sono limitazioni alla deduzione “presuntive” da parte del Tuir, in caso di pagamento da parte del socio assegnatario di un corrispettivo pari al valore di mercato del diritto di godimento del bene, di ciò ne beneficerebbe anche la società in quanto può portare in deduzione i costi nei modi ordinari.
Come si può desumere da queste semplici considerazioni, il “cerchio non si chiude”, auspicando una revisione della disciplina in esame, al fine di riportarla nell’alveo naturale e di evitare maggiori adempimenti in capo alle imprese ed ai loro professionisti.

mercoledì 26 settembre 2012

Risanamento dell’impresa, l’attestatore deve essere indipendente anche dai creditori


di Michele BANA

L’art. 33, co. 1, n. 1, del D.L. n. 83/2012 (c.d. Decreto Crescita) ha riformulato l’art. 67, co. 3, lett. d), del R.D. n. 267/1942, riguardante l’esonero da azione revocatoria fallimentare – esperibile dal curatore, in presenza dei relativi presupposti – degli atti, dei pagamenti e delle garanzie concesse sui beni del debitore, posti in essere in esecuzione di un piano idoneo a permettere il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa, e a garantire il riequilibrio della situazione finanziaria aziendale. Lo strumento in parola, esplicando i propri effetti soltanto a seguito della sentenza dichiarativa di fallimento del debitore, deve, pertanto, ritenersi invocabile dai soli soggetti fallibili, ovvero gli imprenditori commerciali di natura privata, qualificabili come “non piccoli” in base all’art. 1 L.F., in quanto non rispettano, congiuntamente, i seguenti parametri dimensionali:
·    attivo patrimoniale complessivo annuo non superiore ad euro 300.000, nei tre esercizi precedenti la data di deposito della domanda di ammissione all’istituto (ovvero nel minor periodo dall’inizio dell’attività);
·   ricavi lordi annui non eccedenti euro 200.000, nel medesimo orizzonte temporale di cui al punto precedente;
·    esposizione di debiti, compresi quelli non scaduti, inferiore o pari ad euro 500.000.
Ai fini della suddetta esimente, è altresì necessario che il piano sia attestato da un professionista, designato dal debitore (novità del Decreto Crescita, che recepisce una prassi ormai consolidata), tra i soggetti che soddisfano tre condizioni:
·    iscritti nel registro dei revisori legali dei conti. La formulazione della norma appare, tuttavia, imprecisa rispetto all’imminente istituzione del registro dei revisori legali di cui al D.Lgs. n. 39/2010, che si comporrà di due sezioni, di cui una – quella degli “inattivi” – pare mal conciliarsi con le ragioni di tutela della fede pubblica sulle quali si fonda la figura dell’attestatore, inteso come un vero e proprio auditor del piano e dei dati sui quali si basa;
·    in possesso dei requisiti per la nomina a curatore fallimentare, a norma dell’art. 28, co. 1, lett. a) e b), del R.D. n. 267/1942. Si deve trattare, quindi, di un avvocato, dottore o ragioniere commercialista, o ragioniere, oppure di uno studio professionale associato o di una società tra professionisti i cui soci appartengano ad una delle predette categorie professionali;
·    indipendenti, rispetto ad ogni soggetto interessato all’operazione di risanamento (debitore, creditori, ecc.). In particolare, il professionista è indipendente se: non è legato a costoro da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l’obiettività nel giudizio di attestazione; non rientra nelle cause di ineleggibilità dei sindaci di cui all’art. 2399 c.c.; negli ultimi 5 anni, non ha prestato – neppure per il tramite di soggetti con i quali è unito in associazione professionale – attività di lavoro autonomo o subordinato a beneficio del debitore, né ha partecipato agli organi di amministrazione o controllo dello stesso.
Il Decreto Crescita ha, inoltre, rivisto l’oggetto del giudizio del predetto professionista, rimuovendo la mera valutazione di ragionevolezza, stabilendo, invece, che lo stesso – così come già previsto per il concordato preventivo – deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano.
Un’ulteriore novità riguarda l’introduzione di un regime, seppur facoltativo, di pubblicità del piano attestato di risanamento: il debitore può, infatti, richiedere l’iscrizione presso il registro delle imprese, potendo conseguire diversi obiettivi, tra i quali l’attribuzione della data certa, a decorrere dalla quale le operazioni compiute in esecuzione del piano attestato sono sottratte dall’ambito di operatività dell’azione revocatoria fallimentare, nel caso di successiva sentenza dichiarativa di fallimento del debitore. A ciò si aggiunga che quest’ultimo, nell’ipotesi di pubblicità del piano, può altresì beneficiare del regime di non imponibilità – altrimenti precluso, a norma del novellato art. 88, co. 4, del D.P.R. n. 917/1986 – delle sopravvenienze attive da riduzione delle passività dell’impresa, per la parte che eccede le perdite pregresse e di periodo di cui all’art. 84 del Tuir.
Alla luce di quanto sopra riportato, risulta evidente che, qualora il piano sia attestato da un professionista non indipendente, si producono i seguenti effetti, nel caso di successivo fallimento del debitore:
·    gli atti compiuti in esecuzione di tale documento sono assoggettabili a revocatoria fallimentare, se sussistono i presupposti;
·  non opera il regime di esonero di cui all’art. 217-bis del R.D. n. 267/1942, rispetto ai reati di bancarotta fraudolenta preferenziale (art. 216, co. 3, L.F.) e semplice (art. 217 L.F.).
Al ricorrere di tale ipotesi, si configurerebbe altresì, in capo al professionista, la consumazione del nuovo reato di “Falso in attestazioni e relazioni”, previsto dall’art. 236-bis L.F.: la pena prevista è la reclusione da 2 a 5 anni, e la multa da euro 50.000 ad euro 100.000, elevabile – qualora il fatto sia stato commesso per realizzare un ingiusto profitto, per sé od altri – fino alla metà, se ne è derivato un danno per il ceto creditorio.
Si segnala, infine, che le suddette novellate disposizioni sono applicabili esclusivamente ai piani elaborati a decorre dall’11 settembre 2012, ovvero dal 30° giorno successivo all’entrata in vigore della Legge n. 134/2012 di conversione del Decreto Crescita.

martedì 25 settembre 2012

Crisi d’impresa, maggiori rischi col concordato stragiudiziale


di Michele BANA

Il concordato stragiudiziale rappresenta una soluzione privatistica della crisi d’impresa, ovvero senza ricorrere all’intervento del tribunale. È un accordo plurilaterale raggiunto direttamente con i creditori, idoneo a conseguire una pluralità di finalità, quali, ad esempio:
·    un ulteriore differimento dei termini di pagamento (concordato dilatorio);
·    una riduzione dei propri debiti (concordato remissorio), talvolta abbinata alla preventiva cessione dei beni aziendali (concordato liquidatorio);
·    evitare la dichiarazione di fallimento.
Si tratta dello strumento preferito dall’imprenditore, per una serie di motivazioni: costi e tempi di esecuzione contenuti; facoltà di concordare con i creditori la sospensione delle azioni individuali esecutive o cautelari sui propri beni; trascorrere del periodo sufficiente a fare decadere alcune iniziative esperibili dal curatore, nel caso di successivo fallimento, fermo restando il possibile esercizio – da parte del medesimo pubblico ufficiale – dell’azione revocatoria ordinaria (art. 2901 c.c.). Tale rimedio presenta, però, notevoli rischi rispetto alle soluzioni contemplate dal R.D. n. 267/1942, in particolare, l’esclusione da alcuni benefici previsti dalla Legge Fallimentare a favore delle operazioni compiute in esecuzione di un piano attestato di risanamento, accordo di ristrutturazione dei debiti o concordato preventivo:
·    esonero dall’azione revocatoria fallimentare (art. 67, co. 3, lett. d) ed e), L.F., modificato dal Decreto Crescita);
·    esonero dai reati di bancarotta (art. 217-bis L.F.).
Si consideri, inoltre, che il concordato stragiudiziale non impedisce la prosecuzione, ovvero l’avvio, delle azioni individuali esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore, ad opera dei creditori, soprattutto quelli dissenzienti, oppure estranei all’intesa: la sospensione è, invece, ammessa nell’accordo di ristrutturazione dei debiti (anche nel periodo delle trattative, ai sensi dell’art. 182-bis, co. 6, della Legge Fallimentare) e nel concordato preventivo (art. 168 del R.D. n. 267/1942). Il fallimento ne determina, invece, l’interruzione (art. 51 L.F.).
A ciò si aggiunga il rischio di assoggettamento degli amministratori, dei sindaci, dei liquidatori e dei direttori generali, nonché dei soci di s.r.l. (art. 2476, co. 7, c.c.) all’azione di responsabilità, nel caso di successivo fallimento della società, per aver concorso a cagionare, ovvero aggravare, il dissesto dell’impresa.
Vi è, infine, una significativa penalizzazione fiscale, con riferimento alla determinazione del reddito dell’impresa in crisi: sono, infatti, soggette all’ordinario regime di imposizione sia le plusvalenze da cessione dei beni che le sopravvenienze da riduzione dei debiti dell’impresa. Tale circostanza rappresenta un determinante elemento di preferenza per il concordato preventivo, al quale è riconosciuta l’integrale esenzione da tassazione Ires di tali componenti positivi (artt. 86, co. 5, e 88, co. 4, del D.P.R. 917/1986). Si tratta dell’unico strumento della soluzione della crisi d’impresa al quale è accordato un sistema di favore così esteso: diversamente, nel caso del piano attestato di risanamento (art. 67, co. 3, lett. d), L.F.) e dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis L.F., le plusvalenze da cessione dei beni sono sempre imponibili, mentre le sopravvenienze attive da riduzione dei debiti non rilevano soltanto – a seguito dell’entrata in vigore del D.L. n. 83/2012 – per la parte che eccede le perdite pregresse e di periodo di cui all’art. 84 del Tuir.
Non è, invece, riscontrabile una disparità di trattamento ai fini Irap, in quanto trovano applicazione i criteri ordinari: nel caso dei soggetti Irpef, che determinato la base imponibile del tributo regionale considerando le regole del D.P.R. n. 917/1986, non rilevano le plusvalenze e minusvalenze, né le sopravvenienze attive e passive (art. 5-bis, co. 1, del D.Lgs. n. 446/1997). Diverso è, invece, l’effetto sui contribuenti Ires, che individuano il valore della produzione netta secondo il c.d. principio di derivazione dal bilancio, così come gli imprenditori individuali e le società di persone in contabilità ordinaria che hanno esercitato l’opzione di cui al successivo co. 2: le plusvalenze e minusvalenze rilevano, ad eccezione di quelle derivanti dalla cessione dell’azienda (C.M. n. 27/E/2009, par. 1.2), mentre le sopravvenienze devono essere valutate in virtù del c.d. principio di correlazione con componenti reddituali rilevanti in precedenti periodi d’imposta, a norma dell’art. 5, co. 4, del Decreto Irap. Non è, invece, invocabile – a sostegno della tesi contraria della non imponibilità – la circostanza che la corrispondente perdita sofferta dal creditore sia indeducibile. In senso conforme, si veda anche la sentenza n. 17603/2010 della Corte di Cassazione, che ha accolto la tesi dell’Agenzia delle Entrate, secondo cui:
·    il fatto che il legislatore abbia voluto escludere, dalla base imponibile del tributo regionale, l’incidenza delle perdite su crediti “non implica di certo una correlativa esenzione della sopravvenienza in capo all’altra società”. È, infatti, innegabile, secondo l’Amministrazione Finanziaria, che “la remissione (ancorchè parziale) di un debito comporta un arricchimento del soggetto che ne beneficia ed un incremento del suo patrimonio netto”;
·    in nessun caso è invocabile la fattispecie della doppia imposizione, esclusa dall’insussistenza del requisito dell’identità del presupposto, “in quanto vi è invece un arricchimento della società debitrice ed un impoverimento di quella creditrice”. A ciò si aggiunga che, come precisato dall’Agenzia delle Entrate, “il provento era stato tassato al momento della produzione del valore aggiunto, mentre con la perdita sul credito si è solo limitata la possibilità di una riduzione della base imponibile Irap”.
Conseguentemente, le sopravvenienze attive derivanti dalla riduzione dei debiti potrebbero concorrere alla formazione della base imponibile Irap – senza considerare l’importo ascrivibile all’Iva, avente natura patrimoniale, recuperabile dal creditore tramite l’emissione facoltativa della nota di variazione (art. 26, co. 2, del D.P.R. n. 633/1972) – nel limite della parte corrispondente del costo che, in un precedente periodo d’imposta, aveva partecipato alla determinazione del valore della produzione netta del tributo regionale. È il caso, ad esempio, dei debiti commerciali, originatisi per effetto dell’acquisto di materie prime o servizi (voci B)6) e B)7) del conto economico): diversamente, non si ha sopravvenienza attiva imponibile, ai fini del tributo regionale, con riferimento alla riduzione delle passività finanziarie – in quanto inizialmente generatesi per effetto di un mero movimento monetario – ad eccezione di quelli maturate nell’ambito di un contratto di locazione finanziaria e, quindi, correlate ad un costo passato rilevante (la sola quota capitale iscritta nella voce B)8) dello schema di cui all’art. 2425 c.c., in quanto la parte interessi non è stata dedotta per espressa previsione normativa).

lunedì 24 settembre 2012

Beni concessi in godimento ai soci: ulteriori chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate

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di Sandro CERATO

Con la C.M. n. 36/E/2012, emanata nel tardo pomeriggio di ieri, l’Amministrazione finanziaria ha fornito alcune nuove precisazioni in relazione alla fattispecie dell’utilizzo dei beni d’impresa da parte dei soci, tornando su qualche questione già in precedenza affrontata nella C.M. n. 24/E/2012. Come noto, l’art. 2, co. da 36-terdecies a 36-duodevicies, del D.L. n. 138/2011 prevede che in caso di concessione di beni d’impresa in godimento ai soci o familiari, l’eventuale differenza tra valore di mercato del diritto di godimento del bene stesso e l’eventuale corrispettivo pagato dal socio utilizzatore costituisce reddito diverso (nuova lett. h-ter dell’art. 67 del Tuir, mentre in capo al soggetto concedente (società o impresa) si realizza l’indeducibilità di tutti i costi (quote di ammortamento se il bene è detenuto in proprietà, canoni di locazione qualora sia posseduto in locazione, anche finanziaria, spese di gestione, ecc.).
Il primo chiarimento fornito con la C.M. n. 36/E/2012 riguarda la documentazione relativa ai beni concessi in utilizzo ai soci, in cui prevedere gli elementi essenziali del rapporto tra società e socio, quali il corrispettivo pattuito per il godimento e la durata dell’utilizzo stesso, che – in base a quanto precisato dall’Agenzia nella precedente C.M. n. 24/E/2012 – è necessario abbia data certa anteriore all’inizio dell’utilizzazione da parte del socio assegnatario. Tale affermazione aveva suscitato non poche perplessità, soprattutto legate al fatto che la precisazione fosse contenuta in un atto emanato il 15 giugno scorso, laddove molte società avevano già provveduto a documentare l’utilizzo del bene da parte del socio con elementi probatori di varia natura, e difficilmente dotata di data certa. Ora, nella C.M. n. 36/E/2012, l’Agenzia conferma la validità di quanto affermato nella C.M. n. 24/E, chiarendo, tuttavia, che “in assenza della predetta documentazione il contribuente può, comunque, diversamente dimostrare quali sono gli elementi essenziali dell’accordo”, senza, però, indicare quali caratteristiche debba avere tale documentazione, lasciando, quindi, aperta la questione.



La seconda questione attiene i beni concessi in godimento a soci di società trasparenti, ovvero goduti da parte dell’imprenditore stesso: a questo proposito, la C.M. n. 24/E/2012 aveva stabilito che “il maggior reddito della società derivante dall’indeducibilità dei costi andrà imputato esclusivamente ai soci utilizzatori (anche nell’ipotesi in cui il bene sia utilizzato dai loro familiari)”. Relativamente alla portata applicativa di tale affermazione, la dottrina ha criticato la stessa in quanto passibile di portare ad una doppia tassazione in capo al socio (intero maggior reddito di partecipazione derivante dalla variazione in aumento operata dalla società e reddito diverso per la differenza tra valore normale e corrispettivo). Sul punto, la C.M. n. 36/E/2012 ha osservato che per evitare tale doppia tassazione il reddito diverso da assoggettare a tassazione è pari alla differenza che risulta tra i seguenti due elementi:
·    eccedenza del valore normale del diritto di godimento del bene rispetto al corrispettivo pagato dall’utilizzatore;
·    reddito d’impresa attribuito all’utilizzatore stesso (imprenditore o socio) a seguito dell’indeducibilità dei costi in capo alla società o impresa.

Esempio (C.M. n. 36/E/2012)
(A) valore normale del diritto di godimento: 10.000
(B) corrispettivo pagato dal socio: 5.500
(C) Differenza (A – B): 10.000 – 5.500 = 4.500
(D) Maggior reddito d’impresa (da imputare al socio e pari ai costi indeducibili): 2.000
(E) Reddito diverso da imputare al socio (C – D): 4.500 – 2.000 = 2.500

Nell’ipotesi in cui il bene concesso in godimento sia a deducibilità limitata, per effetto di norme del Tuir (ad esempio, un’autovettura il cui costo fiscalmente ammesso rileva per il 40%, sino al periodo d’imposta in corso al 18 luglio 2012, e del 27,50% a partire dal successivo), la C.M. n. 36/E/2012 dispone che per determinare il reddito diverso da assoggettare a tassazione è necessario confrontare i due seguenti importi:
·    il valore normale del diritto di godimento del bene – rappresentato dal c.d. fringe benefit, determinato ai sensi dell’art. 51, co. 4, del D.P.R. n. 917/1986 – al netto del corrispettivo eventualmente pagato;
·    il maggior reddito derivante dalla ripresa a tassazione dei costi indeducibili dell’autovettura, ex art. 164 del Tuir, imputato a tutti i soci, a prescindere da chi utilizza effettivamente il veicolo.


Esempio (C.M. 36/E/2012): società composta da due soci al 50%
(A) valore normale del diritto di godimento: 800
(B) corrispettivo pagato dal socio: zero
(C) Differenza (A – B): 800 – zero = 800
(D) Maggior reddito d’impresa (da imputare in proporzione ai soci): 600 (60% di 1.000 di costi sostenuti dalla società)
(E) Reddito diverso da imputare al socio: 800 – 300 (pari al 50% della ripresa a tassazione in capo alla società) = 500

L’ultimo chiarimento fornito dall’Agenzia riguarda, infine, i beni per i quali il D.P.R. n. 917/1986 garantisce l’integrale deducibilità dei costi, anche quando gli stessi, per loro natura, si prestano ad un uso promiscuo, come ad esempio i taxi (che la disciplina in materia prevede la possibilità di utilizzare anche per scopi privati). In tal caso, precisa la C.M. n. 36/E/2012, le disposizioni del D.L. n. 138/2011 non trovano applicazione, con conseguente applicazione dell’art. 164 del Tuir, che stabilisce la piena deducibilità di tutti i costi relativi a tali beni. Sul punto, si ritiene che alla medesima conclusione si debba pervenire anche per le altre fattispecie di deducibilità integrale stabilite dalla medesima norma, ossia laddove i veicoli costituiscano oggetto proprio dell’attività d’impresa (rivenditori e concessionari d’auto, imprese di noleggio, autoscuole, ecc.).

domenica 23 settembre 2012

Utilizzo promiscuo dell’auto da parte dell’amministratore di società


di Sandro CERATO

La recente Legge di riforma del mercato del lavoro (cd. riforma “Fornero”), varata con L. 28.6.2012, n. 92, contiene importanti novità in materia di deduzione dei costi sostenuti per l’acquisto e l’utilizzo di veicoli aziendali. Tecnicamente, il legislatore è intervenuto modificando il contenuto dell’art. 164 del TUIR, stabilendo che, a partire dal periodo d’imposta 2013:
·      la deduzione dei costi relativi ai veicoli ad uso promiscuo, di cui alla lett. b), del co. 1, è stabilita nella misura del 27,5% (e non più del 40%), fermi restando i limiti massimi di costo fiscalmente riconosciuto (variabili in funzione della tipologia di veicolo);
·      la deduzione dei costi relativi ai veicoli concessi in uso promiscuo al dipendente per la maggior parte del periodo d’imposta, di cui alla lett. b-bis) dello stesso co. 1, è stabilita in misura pari al 70% (e non più al 90%), evidenziando che in tale ipotesi non vi sono tetti massimi di costo per la deduzione degli ammortamenti o dei canoni di locazione, anche finanziaria.
Ricordando che nulla è mutato per quanto riguarda l’utilizzo dei veicoli da parte di agenti e rappresentanti di commercio, per i quali la percentuale di deduzione è rimasta inalterata nella misura dell’80% (entro un determinato limite massimo di costo, anche in tal caso variabile in funzione della tipologia di veicolo), così come per quanto concerne la detrazione dell’Iva sull’acquisto del bene e sulle spese di gestione, che rimane ferma al 40%, in questa sede si intende focalizzare l’attenzione sulla fattispecie di concessione in uso del veicolo all’amministratore della società.
A tale proposito, è bene ricordare che, nonostante l’amministratore di società, nella maggior parte dei casi, percepisca un compenso ricondotto fiscalmente nella categoria dei redditi assimilati al lavoro dipendente, l’Agenzia delle Entrate (C.M. n. 48/1998 e C.M. n. 105/2001) ha sempre sostenuto che la deducibilità dei costi relativi alle autovetture concesse in uso promiscuo a tali soggetti non rientra nella fattispecie di cui alla lett. b-bis) dell’art. 164 del TUIR, riservata esclusivamente alla concessione in uso al dipendente, inteso in senso stretto, e quindi nell’accezione civilistica del termine.
Tuttavia, poiché anche in capo all’amministratore di società si genera un reddito in natura per l’utilizzo dell’auto aziendale anche per scopi personali (uso promiscuo, appunto), l’Agenzia delle Entrate (C.M. n. 1/2007), ha precisato che fino a concorrenza dell’importo di tale fringe benefit tassato in capo all’amministratore, alla società concedente spetta la deduzione integrale dei costi sostenuti per l’automezzo, mentre per l’importo eccedente il predetto benefit la deduzione viene effettuata in misura pari al 40% (27,5% a partire dal 2013).
Relativamente alla quantificazione del benefit, è possibile applicare lo stesso criterio previsto per i dipendenti in relazione alle fattispecie in cui il reddito degli amministratori è assimilato al lavoro dipendente (30% della percorrenza convenzionale annua di 15.000 km, in base alla tariffe Aci), mentre laddove la carica di amministratore sia ricoperta da un soggetto per il quale tale attività rientra in quella tipicamente svolta in qualità di lavoratore autonomo (ad esempio, il dottore commercialista), secondo l’Agenzia non è possibile applicare il predetto criterio forfettario. In tal caso, infatti, il reddito in natura in capo all’amministratore-professionista è pari al valore normale dell’utilizzo dell’autovettura, mentre l’eventuale eccedenza di costi è deducibile nella misura del 40% (27,5% dal 2013).

giovedì 20 settembre 2012

Perdite da liquidazione, novità normative e dichiarazione


di Michele BANA

La nuova disciplina di utilizzabilità dei risultati fiscali negativi delle società di capitali (art. 84 del D.P.R.. n. 917/1986), introdotta dal D.L. n. 98/2011, incide anche sulle regole applicabili alle imprese interessate da una causa di scioglimento, soggette all’operatività dell’art. 182, co. 3, del Tuir: “le perdite di esercizio anteriori all'inizio della liquidazione non compensate nel corso di questa ai sensi dell'articolo 84 sono ammesse in diminuzione in sede di conguaglio". Ciò induce a ritenere che la novità normativa esplichi i propri effetti anche in sede di scomputo dei redditi eventualmente conseguiti nei periodi intermedi della liquidazione sotto un duplice profilo:
·    da un lato, essendo stato eliminato il limite del quinquennio, viene meno la problematica della corretta individuazione di tale orizzonte temporale in corso di liquidazione conseguente all’unicità, a certe condizioni, del periodo della stessa liquidazione;
·    dall'altro, occorre tener conto della nuova soglia di utilizzo della perdita in misura pari all'80,00% del reddito, nel senso che le perdite di esercizio anteriori all'inizio della liquidazione possono essere utilizzate a scomputo dei redditi eventualmente conseguiti nei periodi intermedi della liquidazione entro il predetto limite. Quest’ultimo, ad avviso dell’Istituto di Ricerca dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili (Circolare n. 24/IR/2011), non dovrebbe trovare applicazione in sede di conguaglio finale, in quanto si avrebbe una “definitività” della parziale deducibilità della perdita, che non avrebbe alcuna giustificazione e determinerebbe una violazione del principio di uguaglianza rispetto ai soggetti non interessati da una causa di scioglimento.
La disciplina speciale di determinazione del reddito, ovvero di utilizzo delle perdite, delle società in liquidazione ha, inoltre, formato oggetto della R.M. n. 66/E/2010, con peculiare riferimento agli adempimenti dichiarativi, disciplinati dall’art. 5, co. 1 e 3, del D.P.R. n. 322/1998. Sul punto, si rammenta che – nel caso in cui la procedura venga ultimata entro l’esercizio in corso alla data di apertura della stessa – il liquidatore è tenuto a presentare, in via telematica, la dichiarazione dei redditi relativa al:
·    periodo compreso tra l’inizio dell’anno d’imposta ed il giorno in cui ha avuto effetto la delibera di messa in liquidazione, entro l’ultimo giorno del nono mese successivo a quest’ultima data;
·    risultato finale delle operazioni di liquidazione, entro i nove mesi successivi alla chiusura della liquidazione stessa oppure, se prescritto, al deposito del bilancio finale.
Diversamente, se la liquidazione si protrae oltre il periodo d’imposta in corso all’avvio della medesima, deve essere presentata la dichiarazione dei redditi della frazione residua di tale periodo d’imposta – ovvero dalla data della suddetta delibera a quella di chiusura del medesimo esercizio – ed una per “ogni successivo periodo d’imposta”. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, il citato documento di prassi ha precisato che non deve riguardare la frazione dell’esercizio di conclusione della liquidazione: l’Agenzia delle Entrate ritiene, infatti, che, laddove il legislatore si è preoccupato di prevedere un’autonoma determinazione del reddito, ancorchè provvisoria, con conseguenti obblighi dichiarativi e liquidatori ai fini Ires, lo abbia fatto con riguardo ai soli esercizi provvisori conclusi, antecedenti quello nel corso del quale la liquidazione ha termine. Il reddito prodotto nella frazione di periodo che precede la chiusura della procedura è, infatti, assorbito dal risultato che emerge dal bilancio finale di liquidazione e, conseguentemente, anche l’imposta ad esso relativa va liquidata sulla base del risultato conclusivo, tenendo conto anche delle eventuali poste di conguaglio. Qualora dovesse emergere un saldo debitorio, il contribuente è tenuto ad effettuare – a norma dell’art. 7 del D.P.R. n. 435/2001 – il relativo versamento, entro il 16 del sesto mese successivo a quello di chiusura del periodo d’imposta.

mercoledì 19 settembre 2012

Amministratori di s.r.l., profili critici dell’azione di responsabilità


di Michele BANA

Il regime di responsabilità dei componenti dell’organo di gestione della società a responsabilità limitata è contenuto nell’art. 2476 c.c., secondo cui gli amministratori rispondono solidalmente verso:
la società, dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione dell’impresa;
il singolo socio o terzo, per i danni direttamente causati a seguito di atti dolosi o colposi;
i creditori sociali, per i danni cagionati dalla mancata conservazione del patrimonio sociale.
Analogamente, sono solidalmente responsabili con gli amministratori “i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato atti dannosi per la società, i soci o i terzi” (art. 2476, co. 7, c.c.).
Non è, tuttavia, prospettabile alcuna responsabilità nei confronti dei amministratori che dimostrino di essere esenti da colpa, ed abbiano fatto constatare il proprio dissenso rispetto agli atti, a propria conoscenza, che si stavano per compiere. Diversamente, non è previsto l’esonero dal regime di responsabilità degli amministratori e dei sindaci, qualora i soci abbiano approvato il relativo bilancio d’esercizio (art. 2476, ultimo co., c.c.).
L’azione di responsabilità può essere proposta da ciascun socio, con facoltà di richiedere al tribunale – nel caso di gravi irregolarità nella gestione – l’adozione di un provvedimento cautelare di revoca degli amministratori, eventualmente previa prestazione di un’apposita cauzione (art. 2476,  co. 3, c.c.). Qualora la domanda venga accolta, il socio proponente ha diritto al rimborso delle spese di giudizio, nonchè di quelle sostenute per l’accertamento dei fatti, a cura della partecipata, fermo restando il diritto di regresso nei confronti degli amministratori.
La norma nulla dispone, invece, in merito all’esercizio dell’azione da parte della società, nè si è formato un orientamento uniforme nella giurisprudenza, sostanzialmente divisa tra due posizioni:
favorevole (Trib.  Milano 17 dicembre 2005), per effetto della considerazione che l’art. 2476 c.c. “si limita ad accordare a ciascun socio la facoltà di esercitare, quale sostituto processuale della società, il diritto al risarcimento del danno di cui la società è titolare, senza precludere l’esercizio diretto dell’azione sociale di responsabilità da parte della s.r.l.”;
contraria (Trib. Milano 12 aprile 2006), giustificata dalla formulazione letterale della norma, che riconosce la legittimazione attiva esclusivamente in capo a ciascun singolo socio.
La predetta azione di responsabilità può, tuttavia, formare oggetto di rinuncia o transazione da parte della società, purchè:
     vi acconsenta un numero di soci rappresentanti almeno i 2/3 del capitale sociale;
     non si oppongano tanti soci rappresentanti almeno il 10,00% del capitale sociale.
La proposizione, rinuncia o transazione dell’azione di responsabilità non pregiudica, in ogni caso, il diritto al risarcimento dei danni spettante al singolo socio o terzo direttamente danneggiato da atti dolosi o colposi compiuti dagli amministratori (art. 2476, co. 6, c.c.).
Sussistono, inoltre, anche dei dubbi in ordine alla legittimazione all’azione di responsabilità in capo al creditore sociale, riscontrandosi orientamenti difformi nella giurisprudenza di merito:
ammessa (Trib. Udine 11 febbraio 2005): “la disciplina della s.r.l. va sistematicamente integrata, tramite applicazione di quella regolante le s.p.a., sicchè, sussistendo, la eadem ratio, può applicarsi anche alla prima l’art. 2394 c.c.”.
esclusa (Trib. Milano 25 gennaio 2006): “per effetto della riforma del diritto societario, i creditori sociali non possono più esercitare l’azione sociale, come era previsto nell’art. 2394 c.c., oggi sostanzialmente non più riferibile alla disciplina delle società a responsabilità limitata”.
L’esclusione dell’esercizio dell’azione da parte del creditore sociale appare, tuttavia, criticabile, per una serie di motivazioni, desumibili dalla vigente disciplina civilistica:
     il creditore sociale può essere ricompreso nella qualificazione di “terzo direttamente danneggiato”, legittimato in base all’art. 2476, co. 6, c.c.;
     l’art.  2486, co. 2, c.c., relativo ai poteri degli amministratori delle società di capitali in scioglimento e liquidazione, stabilisce una responsabilità personale e solidale anche nei confronti dei “creditori sociali”;
     l’azione nel creditore sociale può assumere natura extracontrattuale, rientrando nel campo di applicazione del principio generale di cui all’art. 2043 c.c. (“Risarcimento per fatto illecito”).
Nel caso di fallimento della s.r.l., l’azione di responsabilità è esercitabile esclusivamente dal curatore (Cass. n. 25977/2008), previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, nei confronti dei seguenti soggetti (art. 146, co. 2, del R.D. n. 267/1942):
amministratori, componenti degli organi di controllo, direttori generali e liquidatori, anche nel caso di s.r.l. (Trib. Milano, 18 gennaio 2011);
soci della s.r.l., limitatamente a quelli che hanno intenzionalmente deciso, ovvero autorizzato, atti dannosi per la società, i soci ed i terzi (art. 2476, co. 7, c.c.).
Al di fuori di quest’ultima ipotesi, la natura giuridica della s.r.l. comporta un regime di responsabilità, in capo ai partecipanti, limitato al conferimento effettuato, ad eccezione del caso di insolvenza della s.r.l. unipersonale, che presuppone la congiunta sussistenza di due presupposti:
la sopravvenuta incapacità dell’impresa, desumibile da una serie di inadempimenti od altri fatti esteriori, di adempiere  regolarmente le proprie obbligazioni (art. 5, co. 2, del R.D. n. 267/1942). È il caso, ad esempio, della società che smobilizza “sottocosto” il proprio magazzino, al fine di procurarsi le disponibilità liquide necessarie al pagamento dei debiti;
i conferimenti  non sono stati effettuati a norma dell’art. 2464, ultimo co. , c.c. (“se viene meno la pluralità dei soci, i versamenti ancora dovuti devono essere effettuati nei novanta giorni”), oppure non è ancora stato assolto l’adempimento pubblicitario di cui all’art. 2470, co. 4, c.c., consistente nella dichiarazione camerale dei dati dell’unico socio, ovvero della modifica dello stesso: cognome, nome o denominazione, data e luogo di nascita o Stato di costituzione, domicilio o sede e cittadinanza.
In presenza delle predette condizioni, il socio unico della s.r.l. risponde illimitatamente per le obbligazioni sorte nel periodo in cui ha assunto la qualifica di unico partecipante della società a responsabilità limitata.