giovedì 30 agosto 2012

Aspetti critici delle "nuove" Srl semplificata ed a capitale ridotto

di Sandro CERATO

A partire da mercoledì scorso, 28 agosto 2012, è possibile costituire una società a responsabilità limitata semplificata, che si affianca alla società a responsabilità limitata a capitale ridotto, prevista dall’art. 44 del D.L. 83/2012, di cui ci siamo occupati in un precedente intervento. Brevemente, si ricorda che:
  • la srl semplificata (disciplinata dall’art. 2463-bis c.c., inserito dall’art. 3, co. 2, del D.L. n. 1/2012), i cui costi di costituzione sono di fatto azzerati (ferma restando l’imposta di registro fissa di euro 168), è riservata esclusivamente a soci persone fisiche che non abbiano compiuto i 35 anni di età, e l’atto costitutivo, da adottarsi con atto pubblico notarile, deve essere quello standard di cui al D.M. 138/2012, con le conseguenti limitazioni che ne derivano;
  • la srl a capitale ridotto (disciplinata come detto dall’art. 44 del D.L. 83/2012), invece, per la cui costituzione non sono previsti “sconti” o agevolazioni, ma il cui atto costitutivo è libero, è riservata esclusivamente a soci persone fisiche che abbiano compiuto i 35 anni di età.
In questa sede si intende focalizzare l’attenzione su alcune questioni “critiche” che si presentano per coloro che intenderanno avvalersi di tali schemi societari, soprattutto con riferimento all’eventuale trasferimento della quota da parte di un singolo socio.
Per quanto riguarda le srl semplificate, infatti, l’art. 2463-bis c.c., nonché l’atto costitutivo standard tipizzato dal predetto D.M. 138/2012 prevedono espressamente il divieto di trasferimento delle quote, per atto tra vivi, a persone fisiche che alla data di cessione delle stesse abbiano già compiuto 35 anni di età. In caso di trasferimento a soggetto senza tale requisito anagrafico, l’atto deve considerarsi nullo, e quindi come non fosse avvenuto. Nulla, tuttavia, è detto per altre situazioni che potrebbero accadere durante la vita della società, soprattutto con riferimento all’ipotesi in cui un socio (che può essere anche l’unico) compia il 35esimo anno di età. In tal caso, ferma restando la possibile cessione della quota ad un soggetto under 35 prima dell’avverarsi della condizione “risolutiva” (35 anni di età del cedente), le possibili strade potrebbero essere le seguenti:
  • scioglimento della società (si pensi, ad esempio, alla srl semplificata con unico socio);
  • trasformazione in srl ordinaria (con contestuale aumento del capitale al minimo legale di euro 10.000), o in srl a capitale ridotto, anche se in tale ultimo caso si pone la questione della possibilità che in tali società partecipino anche soci under 35 (quelli “rimasti”), di cui si dirà oltre;
  • recesso del socio che non presenta più o requisiti per far parte della compagine sociale, nel qual caso tuttavia si verrebbero a determinare penalizzanti conseguenze patrimoniali in capo alla società (le norme del codice civile in materia di srl, infatti, e segnatamente l’art. 2473, prevedono la liquidazione a valori di mercato).
Concentrando l’attenzione sull’ipotesi di trasformazione della srl semplificata in srl a capitale ridotto, si pone l’ulteriore questione della compatibilità di tale ultima società con l’art. 44 del D.L. 83/2012, secondo cui possono costituire la società solo persone fisiche con almeno 35 anni compiuti. Tuttavia, nel caso che ci occupa, non si sarebbe in presenza di una costituzione societaria ex novo, ma di una trasformazione della società stessa, e quindi di una modifica dei patti societari. Se l’interpretazione letterale del co. 1 dell’art. 44 del predetto D.L. 83/2012 è corretta, il requisito anagrafico dei soci (over 35) dovrebbe verificarsi solamente all’atto della costituzione, ragion per cui l’eventuale entrata di soci under 35 a seguito di eventi successivi potrebbe essere compatibile con tale tipologia di società, anche se sul punto, almeno in una prima fase, sembrerebbe più opportuna la trasformazione in srl ordinaria.

Novità Iva cessioni immobiliari e acconti pagati prima del 26 giugno 2012

di Sandro CERATO

L’art. 9 del D.L. n. 83/2012, con decorrenza dalle operazioni effettuate dal 26 giugno 2012, riscrivendo i numeri 8-bis) e 8-ter) dell’art. 10 del DPR 633/72, ha apportato rilevanti modifiche al regime Iva delle cessioni di immobili. In particolare, la predetta disposizione prevede le seguenti novità:
  • il regime naturale applicabile alle cessioni di immobili è di regola l’esenzione da Iva;
  • per alcune cessioni, sia aventi ad oggetto fabbricati abitativi, sia strumentali, è possibile optare per l’imponibilità Iva a cura del cedente, nel relativo atto di compravendita;
  • viene prevista una “nicchia” di naturale applicazione dell’Iva, senza necessità di alcuna opzione, per le cessioni di immobili, sia abitativi, sia strumentali, poste in essere dalle imprese che li hanno costruiti, o vi hanno eseguito interventi di ristrutturazione di cui all’art. 3, co. 1, lett. c), d) ed f), del DPR 380/2001, purché tali cessioni avvengano entro cinque anni dall’ultimazione dei lavori di costruzione o ristrutturazione. In tal modo, è stato uniformato il termine quinquennale per entrambe le tipologie di immobili, mentre in precedenza tale termine era di quattro anno per i fabbricati strumentali e di cinque per quelli abitativi;
  • per le cessioni di alloggi sociali (di cui al D.M. 22.4.2008), in sede di conversione in legge del D.L. n. 83, è stato previsto che tali operazioni sono esenti da Iva, salva la possibilità di optare per l’applicazione dell’Iva nel relativo atto.
In tale contesto, in cui, come detto, si assiste ad un ampliamento delle fattispecie imponibili in caso di cessioni immobiliari, soprattutto laddove il cedente sia l’impresa di costruzione o ristrutturazione, è necessario prestare attenzione alla gestione delle operazioni effettuate a “cavallo” tra la “vecchia” e la “nuova” disciplina. Ci si riferisce, in particolare, alle compravendite di immobili per le quali prima del 26 giugno 2012 (data di entrata in vigore del D.L. 83/2012), sono stati pagati degli acconti, e successivamente a tale data è stato perfezionato il trasferimento di proprietà. In tali ipotesi, infatti, è necessario ricordare che per effetto dell’art. 6 del DPR 633/72, le cessioni di beni immobili si considerano effettuate, di regola, alla data di sottoscrizione dell’atto notarile di compravendita (fatte salve alcune ipotesi di differimento del passaggio di proprietà), fermo restando che eventuali acconti percepiti prima di tale data comportano l’effettuazione dell’operazione, ai fini Iva, limitatamente per l’importo dell’acconto erogato.
In altre parole, in tali casi ai fini Iva le regole sul momento di effettuazione dell’operazione portano ad una “scomposizione” dell’operazione in più parti, ragion per cui potrebbe accadere che l’importo pagato a titolo di acconto sia soggetto al regime di esenzione, mentre l’importo incassato a saldo, all’atto del trasferimento dell’immobile, sia soggetto al regime di imponibilità ai fini Iva. Un esempio può chiarire meglio quanto descritto.
La società ALFA, che ha costruito un complesso immobiliare i cui lavori sono stati ultimati in data 20 marzo 2007, ha posto in essere la seguente operazioni di vendita:
  • in data 10 giugno 2012 (prima dell’entrata in vigore delle novità del D.L. n. 83/2012) ha sottoscritto un contratto preliminare per la vendita di un immobile, incassando un acconto di euro 20.000, e fatturandolo in esenzione Iva, ai sensi dell’art. 10, n. 8-bis), del DPR 633/72, in quanto alla predetta data erano trascorsi oltre 5 anni dalla data di ultimazione dei lavori;
  • in data 10 luglio 2012 (successivamente all’entrata in vigore del D.L. n. 83/2012) ha perfezionato il trasferimento con atto notarile, incassano il saldo del prezzo di vendita, per euro 180.000, assoggettandolo ad Iva a seguito di opzione esercitata nell’atto di compravendita, ai sensi dell’art. 10, n. 8-bis), del DPR 633/72, come modificato dall’art. 9 del D.L. n. 83/2012.

mercoledì 29 agosto 2012

Il diritto alla rivalsa dell'Iva accertata

di Sandro CERATO

L’art. 93 del D.L. n. 1/2012, modificando l’art. 60 del DPR 633/72, consente l’esercizio del diritto di rivalsa dell’Iva accertata al cedente o prestatore. La modifica normativa elimina finalmente il divieto, esistente sin dall’introduzione dell’Iva nel 1973, di poter addebitare, in via di rivalsa, al cessionario dei beni o al committente del servizio l’eventuale Iva accertata in capo al soggetto passivo, in palese contrasto con l’art. 167 della direttiva 2006/112, che sancisce il principio di simmetria tra esigibilità e detrazione del tributo. Il passaggio normativo, che si auspica sia confermato nel corso dell’iter di conversione, rappresenta una tappa importante nel percorso di avvicinamento all’effettiva neutralità del tributo nei passaggi interni dei beni e servizi tra soggetti passivi, per i quali l’Iva rappresenta una mera partita di giro, dovendo rimanere inciso del tributo solamente il consumatore finale.
In questa sede si intende porre l’attenzione su alcuni aspetti che costituiscono una sorta di “prerequisito” per poter accedere alla facoltà in questione, che si sostanzia, come detto, nella possibilità di rendere neutra l’imposta anche in sede di accertamento della stessa. In particolare, la prima riflessione attiene all’esclusione da tale possibilità di tutte le vendite “in nero”, nelle quali, per definizione, non si conosce la controparte economica dell’operazione, nonché delle fatture “false”, in cui l’inesistenza dell’operazione riverbera i suoi effetti anche sulla relativa imposta e, di conseguenza, anche sul diritto alla detrazione in capo al cessionario-committente.
In altre parole, requisito necessario affinché si possa operare la rivalsa in questione è l’avvenuta emissione di un documento contabile a fronte dell’operazione, successivamente riqualificata dall’Amministrazione Finanziaria. Si pensi, ad esempio, all’emissione di una fattura fuori campo, ai sensi dell’art. 7-ter del DPR 633/72, nei confronti di un operatore soggetto passivo Iva in altro Stato Ue, e rettificata come imponibile in sede di verifica a seguito della mancata iscrizione del committente comunitario nell’elenco Vies (servizio cd. “business to consumer”).
Il secondo aspetto riguarda l’istituto della rivalsa, sancito dall’art. 18 del DPR 633/72, secondo cui si attua la traslazione dell’imposta in capo al cessionario/committente, il quale è tenuto, se soggetto passivo, a ribaltare tale tributo nel successivo passaggio “a valle”, fino ad arrivare al consumatore finale, il quale rimane inciso definitivamente dell’imposta. Orbene, prima delle modifiche apportate dal D.L. 1/2012, la rivalsa non poteva essere esercitata, ai sensi del precedente art. 60, co. 7, del DPR 633/72, dopo l’emissione dell’atto di accertamento o di rettifica, con la conseguenza che tale diritto non era precluso prima della notifica dei predetti atti. In tale intervallo temporale, infatti, il cedente o prestatore era, ed è tuttora, legittimato ad esercitare tale diritto, con conseguente modifica dell’operazione originariamente effettuata. In caso contrario, ossia laddove si interpretasse il vecchio divieto posto dall’art. 60 di esercitare la rivalsa per tutte le operazioni soggette a rettifica o accertamento comporterebbe l’illegittima abrogazione della disposizione di cui all’art. 26 del DPR 633/72, il cui co. 1 prevede l’onere di fatturazione successiva rispetto al momento di effettuazione dell’operazione originaria, anche per cause imputabili al contribuente. Pertanto, fino al momento in cui non interviene un atto di accertamento o di rettifica, il contribuente era già legittimato ad operare una variazione dell’operazione, e della relativa rivalsa, nelle ipotesi ed alle condizioni previste dall’art. 26 del DPR 633/72.
Infine, per quanto riguarda il cessionario, o committente, lo stesso, secondo quanto stabilito dal novellato co. 7 dell’art. 60, è legittimato ad esercitare la detrazione dell’imposta pagata al cedente o prestatore, a seguito dell’accertamento, tenendo conto di due importanti elementi:
·       il primo “temporale”, secondo cui il termine iniziale per l’esercizio del diritto alla detrazione coincide con il momento in cui l’imposta stessa è pagata al cedente o prestatore che ha esercitato il diritto alla rivalsa, e non in funzione del momento originario di effettuazione dell’operazione principale (successivamente accertata o rettificata);
·       il secondo, invece, attiene alla “qualità” della detrazione, che può essere esercitata alle stesse condizioni esistenti al momento di effettuazione dell’operazione originaria. Pertanto, ad esempio, laddove al momento di effettuazione dell’operazione originaria, il cessionario o committente subiva la penalizzazione di un pro-rata limitato di detrazione per effetto di attività esenti, la detrazione dell’imposta pagata a seguito della rivalsa in sede di accertamento deve subire la stessa limitazione, anche se nel frattempo tale pro-rata non sussiste più, o sussiste in maniera differente.

martedì 28 agosto 2012

La Srl si "moltiplica": Srl semplificata e Srl a capitale ridotto

di Sandro CERATO

Dopo mesi di “gestazione”, da domani 29 agosto 2012 sarà finalmente possibile costituire la società a responsabilità limitata semplificata (“Srls”), a seguito dell’entrata in vigore del D.M. 14.8.2012, previsto dal nuovo art. 2463-bis c.c., inserito dal D.L. n. 1/2012. Nel frattempo, tuttavia, l’art. 44 del D.L. 83/2012 ha affiancato alla predetta forma societaria un’ulteriore tipologia di società di capitali, e più precisamente la società a responsabilità limitata a capitale ridotto (“Srlcr”).
Le due tipologie societarie, anche se le stesse sono in realtà una “deviazione” dal modello della tradizionale srl, partono da un presupposto diametralmente opposto in termini di requisiti soggettivi. Infatti:
·       la “Srls”, che come vedremo deve essere costituita utilizzando uno statuto “standard”, deve essere formata solamente da soci persone fisiche che non abbino compiuto 35 anni (under 35);
·       la “Srlcr”, il cui statuto è “libero”, deve invece essere costituita esclusivamente da soci persone fisiche che abbiano compiuto 35 anni (over 35).
Per il resto molte caratteristiche sono simili, e più in particolare:
·       la denominazione sociale deve contenere l’indicazione che si tratta di una srl semplificata (Srls), ovvero a capitale ridotto (Srlcr);
·       il capitale sociale, interamente versato in denaro (non sono previsti infatti conferimenti in natura) nelle mani degli amministratori all’atto della costituzione della società, è variabile da un minimo di 1 euro ad un massimo di 9.999,99 euro;
·       la cessione delle quote non può avvenire a favore di soci che non siano under 35 nelle Srls, e a favore di soci che non siano persone fisiche over 35 nelle Srlcr.
Importanti differenze, invece, sussistono in relazione sia all’amministrazione della società, sia ai costi per la costituzione. Per quanto riguarda il primo aspetto, nelle Srls l’amministrazione deve essere affidata esclusivamente ad uno o più soci (ovviamente persone fisiche), mentre nelle Srlcr è possibile coinvolgere anche soggetti esterni, purché abbiano la qualifica di persone fisiche, con esclusione quindi in ogni caso di amministratori persone giuridiche. In relazione ai costi di costituzione, per le Srls le disposizioni prevedono una sorta di “gratuità”, in quanto non sono dovuti onorari notarili, né imposta di bollo e diritti di segreteria, mentre resta ferma l’imposta  di registro fissa nella misura di euro 168. per quanto riguarda invece le Srlcr, le disposizioni del D.L. 83/2012 non prevedono sconti, e ciò in funzione delle differenti possibilità previste in tema di adozione dell’atto costitutivo, che nel primo caso è standard, mentre nel secondo è libero, fermi i vincoli descritti in precedenza.
Per quanto riguarda in particolare le Srls, inoltre, per effetto della necessaria adozione dello statuto standard approvato con il D.M. 14.8.2012, sono altresì precluse tutte le opzione normalmente esercitabili nelle srl ordinarie, tra cui si segnalano le seguenti:
·       introdurre clausole limitative alla circolazione delle partecipazioni, tra cui si segnala quella di prelazione, più frequentemente inserita, ovvero apporre gradimenti o l’intransferibilità assoluta;
·       introdurre clausole di recesso volontarie, ossia ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge;
·       introdurre la possibilità di avvalersi del maggior termine di 60 giorni, rispetto a quello ordinario di 120 giorni, per l’approvazione del bilancio di esercizio;
·       la possibilità di prevedere quorum assembleari diversi rispetto a quelli previsti dalla legge.

lunedì 27 agosto 2012

Responsabilità fiscale negli appalti: novità del D.L. 83/2012

di Sandro CERATO

L’art. 13-ter del D.L. 83/2012, inserito in sede di conversione in legge, ha modificato l’art. 35, co. 28, del D.L. n. 223/06 relativamente al tema della responsabilità fiscale negli appalti. E’ bene ricordare che con l’art. 2, co. 5-bis, del D.L. n. 16/2012, il legislatore aveva già radicalmente modificato il predetto art. 35, co. 28, del D.L. n. 223/06, concernente la responsabilità solidale dell’appaltatore con il subappaltatore per il versamento delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente, dei contributi previdenziali e dei contributi assicurativi obbligatori per gli infortuni.
Con le “vecchie” modifiche del D.L. 16/2012, a differenza di quanto accadeva prima, si estende la responsabilità fiscale, in quanto si stabilisce che in caso di appalto di opere o servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è responsabile in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno dei subappaltatori, fino a due anni dalla cessazione dell’appalto, per il versamento delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente e dell’Iva relativa alle fatture inerenti le prestazioni effettuate nell’ambito dell’appalto.
Tale responsabilità, si precisava, veniva meno qualora il committente dimostrasse di aver messo in atto tutte le cautele possibili per evitare l’inadempimento (norma da collegare con l’art. 29, co. 2, del D.Lgs. n. 276/2003, con cui si stabilisce la responsabilità solidale del committente con l’appaltatore ed eventuali subappaltatori, entro ili limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, per le retribuzioni ed i contributi previdenziali ed assistenziali).
La questione maggiormente critica che si era posta immediatamente atteneva proprio a tale ultimo aspetto, in quanto il committente era esonerato dalla responsabilità solidale solamente se dimostrava che il mancato versamento dell’Iva e delle ritenute da parte dell’appaltatore si era verificato nonostante fossero state poste in essere tutte le cautele possibili per evitare tale inadempimento. Sembrava tuttavia trattarsi di una prova alquanto difficile da fornire, in quanto ci si chiedeva quali dovevano essere i mezzi adottati dai committenti per evitare di incorrere nella responsabilità in questione.
In buona sostanza, in un contratto di appalto, il committente avrebbe dovuto richiedere ai propri appaltatori e subappaltatori un documento equipollente al Durc (Documento unico di regolarità contributiva), già previsto per gli obblighi previdenziali. In caso contrario, il committente poteva essere chiamato a rispondere del mancato versamento dell’Iva da parte dell’appaltatore (peraltro allo stesso già corrisposta), nonché delle ritenute Irpef sul reddito di lavoro dipendente altrui.
In merito alle ritenute fiscali, la prova più “semplice” da fornire potrebbe essere quella di ottenere copia, da parte degli appaltatori e subappaltatori, dei modelli F24 relativi ai suddetti versamenti, mentre appare più complessa la prova relativa all’Iva, in quanto il versamento della stessa avviene in occasione delle liquidazioni periodiche, in cui confluiscono tutte le operazioni attive e passive del soggetto, e non solamente quelle specifiche intercorse con l’appaltatore. Sembra quindi difficile “estrapolare” l’imposta dovuta sulle fatture emesse dagli appaltatori al fine di verificarne il relativo versamento, tenendo conto tra l’altro che la liquidazione periodica potrebbe chiudere anche a credito, nel qual caso non vi sarebbe nemmeno un effettivo versamento d’imposta. Meno problematica dovrebbe presentarsi la questione in relazione ai rapporti con i subappaltatori, per i quali si rende spesso applicabile il regime del reverse charge, ai sensi dell’art. 17 del DPR 633/72, con conseguente mancata esposizione dell’Iva nella fattura emessa.
L’art. 13-ter del D.L. 83/2012, riscrivendo integralmente la disciplina in questione, prevede quanto segue:
·       la responsabilità solidale opera esclusivamente nei rapporti tra appaltatore e subappaltatore, escludendo quindi il committente;
·       il committente, tuttavia, è soggetto ad una sanzione pecuniaria, da un minimo di euro 5.000 ad un massimo di euro 200.000, qualora provveda ad effettuare il pagamento del corrispettivo senza chiedere l’esibizione, da parte dell’appaltatore, della documentazione idonea alla dimostrazione del corretto assolvimento degli obblighi fiscali, sia in capo all’appaltatore, sia in capo al subappaltatore e se, effettivamente, siano state accertate inadempienze in capo ai predetti soggetti;
·       la possibilità, per l’appaltatore, di evitare la responsabilità in questione, laddove acquisisca dal subappaltatore, prima del pagamento del corrispettivo, un’asseverazione, rilasciata dai CAF o dai soggetti iscritti negli albi dei dottori commercialisti ed esperti contabili, dei consulenti del lavoro, in cui si attesti il corretto assolvimento degli adempimenti (già scaduti) connessi al versamento dell’Iva e delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente;
·       la responsabilità solidale è limitata all’ammontare del corrispettivo dovuto;
·       esclusione, dalla nuova disciplina, delle stazioni appaltanti pubbliche, di cui all’art. 3, co. 33, del D.Lgs. n. 163/2006.
Dalla lettura delle novità descritte emergono senza dubbio degli aspetti positivi, soprattutto legati all’esclusione dalla responsabilità dei committenti pubblici, e nell’intento di individuare normativamente una documentazione idonea ad escludere la responsabilità solidale, senza dover ricorrere ad adempimenti quali l’esibizione di modelli F24, come richiesto in passato. Rimangono tuttavia alcune perplessità, soprattutto legate alla mole di adempimenti per evitare la responsabilità, che è comunque elevata, ed al permanere della responsabilità in ambito Iva, per la quale non si tiene conto che nei rapporti con i subappaltatori si applica il regime del reverse charge, in cui il vero responsabile nell’applicazione del tributo non è il subappaltatore, bensì l’appaltatore.

venerdì 24 agosto 2012

Riduzione della deduzione forfettaria Irpef sui canoni di locazione

di Sandro CERATO
 
Secondo quanto stabilito dall’art. 37 del TUIR, la tassazione dei fabbricati detenuti da persone fisiche avviene
con le risultanze catastali, a meno che lo stesso non sia concesso in locazione, nel qual caso l’imponibile fiscale è dato dal maggiore tra:
·       la rendita catastale rivalutata del 5%;
·       il canone di locazione annuo pattuito, decurtato di una percentuale forfetaria del 15%
(5% dal 2013, a seguito delle modifiche in commento).
In buona sostanza, l’intervento del legislatore è “chirurgico”, nel senso che lo stesso si è limitato ad abbassare
la deduzione forfettaria, con buona pace del locatore che sarà costretto ad evidenziare nel modello Unico
un imponibile maggiore. La “ratio” di tale modifica, si ritiene, dovrebbe essere esclusivamente quella di
garantire un maggior gettito nelle casse erariali, in quanto non si può certamente pensare che la percentuale
del 5% possa essere più rappresentativa in relazione ai costi che il locatore deve sostenere.
E’ opportuno sin da subito evidenziare che l’art. 4, co. 74, della Legge n. 92/2012, non è intervenuto in alcun
modo sulla misura delle altre riduzioni forfetarie previste dal TUIR o da altre disposizioni normative, e più in particolare:
·       per i fabbricati situati nella città di Venezia centro e nelle isole della Giudecca, di Murano e di Burano,
la riduzione è confermata nella misura del 25%;
·       per gli immobili di interesse storico o artistico, di cui all’art. 10 del D.Lgs. n. 42/2004, è confermata
la riduzione del 35% (tale percentuale, tra l’altro, è stata inserita ad opera del recente D.L. n. 16/2012, in quanto in precedenza tali immobili risultavano di fatto esclusi da tassazione, poiché rilevava in ogni caso la sola rendita catastale).
Tecnicamente, poiché la modifica normativa ha interessato solamente l’art. 37 del TUIR, e quindi la tassazione
degli immobili detenuti al di fuori dell’esercizio d’impresa, resta immutata la disciplina fiscale degli immobili detenuti dalle imprese, per i quali è opportuno ricordare che:
·       gli immobili “patrimonio”, ossia quelli abitativi che non sono utilizzati quali beni strumentali o beni merce,
di cui all’art. 90 del TUIR, continuano a godere della riduzione del 15% del canone di locazione pattuito, purché siano sostenute e documentate spese di manutenzione ordinaria, e comunque nei limiti dell’anzidetta percentuale rispetto al canone di locazione;
·       gli immobili strumentali, invece, continuano a rilevare nella determinazione del reddito d’impresa
secondo le risultanze contabili, e quindi deducendo tutti i costo sostenuti (tranne l’ammortamento riferito al terreno, normalmente pari al 20% o al 30% in funzione della tipologia dell’immobile), e tassando come ricavo l’intero canone di locazione imputato a conto economico, senza alcuna possibilità di abbattimento.
Dalle novità introdotte dal legislatore della riforma del lavoro, emergono alcune considerazioni, anche critiche:
·       in primo luogo, la modifica comporta un’ulteriore penalizzazione per gli immobili locati, 
poiché richiede un maggior reddito imponibile, ferma restando anche la necessità di assoggettamento pieno ad IMU (a differenza degli immobili non locati, per i quali è previsto l’assorbimento della tassazione Irpef nella nuova imposta comunale);
·       in secondo luogo, la modifica in questione dovrebbe favorire l’utilizzo della cedolare secca,
anche se si ricorda che tale opzione è esercitabile solo per gli immobili destinati ad uso abitativo, le cui parti contrattuali siano entrambe soggetti non imprenditori. Tale limitazione all’accesso alla cedolare comporta che la riduzione dell’abbattimento forfettario al 5% penalizzerà senz’altro le locazioni di immobili non abitativi (uffici, negozi, laboratori, ecc.), per i quali la novità si traduce in un aggravio impositivo sostanziale;
·       infine, sempre con riferimento agli immobili non abitativi, si ricorda che gli stessi non possono fruire
della sospensione da tassazione dei canoni non percepiti a seguito dell’ultimazione della procedura di sfratto per morosità, in quanto, come ricordato anche dall’Agenzia delle Entrate nella C.M. n. 101/E/2000, tale possibilità non è prevista per gli immobili a destinazione commerciale.
In ultimo, per quanto riguarda le decorrenza della novità in commento, è stabilito che la stessa presti 
efficacia a partire dal 2013, segnalando che fortunatamente non è stato previsto alcun obbligo di “anticipazione” nel calcolo degli acconti per l’anno 2013, ragion per cui l’impatto si avrà solamente nell’anno 2014, in sede di versamento del saldo Irpef dell’anno 2013.

giovedì 23 agosto 2012

Comunicazione "black list" con soglia minima di euro 500: semplificazione?

di Sandro CERATO

Il D.L. n. 16/2012 (cd. decreto “semplificazioni”) contiene numerose misure volte allo snellimento di alcuni adempimenti previsti in capo alle imprese ed ai professionisti. Tra queste assume particolare rilievo quella, contenuta nell’art. 2, co. 8, riferita all’obbligo di comunicazione delle operazioni intercorse con soggetti residenti o domiciliati in Paesi black list, di cui all’art. 1, co. 1, del D.L. 25.3.2010, n. 40 (convertito, con modificazioni, dalla Legge 22.5.2010, n. 73). Secondo tale disposizione, si rammaenta, i soggetti passivi Iva sono tenuti a comunicare all’Agenzia delle Entrate, in via telematica, tutte le cessioni di beni e prestazioni di servizi, effettuate e ricevute, registrate o soggette a registrazione, intercorse – a partire dal 1° luglio 2010 (art. 5 del D.M. 30.3.2010) – con soggetti aventi sede, residenza o domicilio nei Paesi c.d. black list di cui ai Decreti Ministeriali del 4.5.1999 e 21.11.2001, così come modificati dal successivo D.M. 27.7.2010, che ha escluso dall’elenco tre Stati: Cipro, Malta e Corea del Sud.
Si osserva che gli elenchi contenuti nei predetti Decreti Ministeriali devono essere applicati congiuntamente, a prescindere dalla condizione soggettiva dell’operatore economico, essendo sufficiente che “abbia sede, residenza o domicilio in un Paese contemplato da una sola delle suddette liste e indipendentemente dalla natura giuridica e dall’attività svolta da tale operatore” (C.M. 21.10.2010, n. 53/E, paragrafo 1.). Ad esempio, è obbligato alla comunicazione “black list” il soggetto passivo Iva che cede beni, o presta servizi, a beneficio di un’impresa stabilita in Lussemburgo, Paese compreso soltanto nella lista di cui all’art. 3, co. 1, n. 9), del D.M. 21.11.2001, anche se diversa da una “società holding di cui alla locale legge 31.7.1929”.
Relativamente alle operazioni interessate dall’obbligo di comunicazione, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che rilevano le seguenti operazioni perfezionate con operatori economici localizzati in Stati a fiscalità privilegiata (C.M. n. 53/E/2010, paragrafo 2.):
·     le cessioni, gli acquisti e le prestazioni di servizi con soggetti comunitari;
·     le prestazioni di servizi rese a favore di soggetti extracomunitari, ovvero fornite da costoro;
·     le esportazioni e le importazioni di beni, anche nel caso in cui siano, rispettivamente, precedute e seguite dal transito in un deposito Iva, ai sensi dell’art. 50-bis del D.L. 30 agosto 1993, n. 331.
Come anticipato, l’art. 2, co. 8, del D.L. n. 16/2012, interviene a parziale modifica delle disposizioni normative che prevedono l’obbligo di comunicazione delle operazioni in questione, fissando una soglia minima, pari a euro 500, al di sotto della quale non sussiste l’inclusione dell’operazione nella comunicazione. L’intervento normativo, se certamente ha l’obiettivo di semplificare l’adempimento in questione, in quanto esclude le operazioni di piccolo importo (si pensi, ad esempio, all’acquisto via internet di un software presso un operatore economico stabilito in un Paese a fiscalità privilegiata), potrebbe portare con sé alcune complicazioni, soprattutto in relazione al criterio che dovrà essere utilizzato per l’individuazione della nuova soglia minima di euro 500.
In particolare, dovrà essere chiarito se si debba aver riguardo alla nozione di operazioni in ambito Iva, e quindi utilizzando i criteri di cui all’art. 6 del DPR 633/72, ovvero quelli già utilizzati ai fini dello “spesometro” (anche tale adempimento è stato oggetto di modifiche da parte del decreto semplificazioni, ndr), nel qual caso di deve tener conto delle operazioni tra di loro collegate, ovvero dei contratti con corrispettivo periodico determinato. Appare evidente che l’utilizzo di tale seconda impostazione comporterebbe numerosi problemi in capo ai soggetti interessati, già “scottati” dall’esperienza dello spesometro, ragion per cui sembra possibile sostenere che deve prevalere una nozione di operazione ai fini Iva. Tuttavia, anche questa soluzione, ad onor del vero, potrebbe prestare il fianco ad alcune critiche, atteso che in presenza di pagamento di acconti, l’operazione verrebbe “spezzata” con conseguente esclusione dall’inserimento della stessa nella comunicazione, laddove le singole tranches di acconti siano di importo non superiore a euro 500.
Per maggior chiarezza, si consideri il seguente esempio: acquisto di software per un costo di euro 700 presso un operatore black list, con pagamento di un acconto di euro 300 all’atto dell’ordine e successivo pagamento del saldo di euro 400 al momento dell’effettuazione del download. Trattandosi, ai fini Iva, di due distinte operazioni di importo non superiore alla soglia minima di euro 500, si potrebbe concludere che le predette operazioni siano escluse dall’obbligo di comunicazione. La conclusione descritta è tuttavia criticabile, atteso che la stessa operazione, nell’ipotesi in cui fosse saldata per intero in unica soluzione, deve essere oggetto di comunicazione in quanto di importo superiore ad euro 500.
In ogni caso, pare condivisibile il pensiero di Assonime (circolare n. 11/2012), secondo cui il limite di euro 500 deve essere computato con riferimento ad ogni singola operazione, e non tenendo conto di tutte le operazioni effettuate dal medesimo soggetto nel corso del mese o trimestre di riferimento per la presentazione della comunicazione.

martedì 21 agosto 2012

I "supersemplificati" e gli studi di settore: il pensiero dell'Agenzia

di Sandro CERATO

Secondo l’Agenzia delle Entrate, i contribuenti “supersemplificati”, di cui all’art. 27, co. 3, del D.L. 98/2011, sono soggetti “marginali” ai fini degli studi di settore, che si rendono comunque applicabili nei confronti dei predetti soggetti. E’ quanto emerge dalla lettura della C.M. 16.3.2012, n. 8/E (§ 6.6) dell’Agenzia delle Entrate, in cui si conferma l’accertabilità di tali soggetti con lo strumento presuntivo dello studio di settore.
In relazione ai soggetti in questione, “inventati” dall’art. 27, co. 3, del D.L. 98/2011, conosciuti anche come soggetti “ex minimi”, il provvedimento direttoriale n. 185825/2011 (§ 5) si occupa di disciplinare le semplificazioni contabili previste per i soggetti ammessi al regime supersemplificato, confermando già quanto contenuto nella predetta disposizione normativa. Nell’ambito delle semplificazioni, è da segnalare l’esonero dagli obblighi di registrazione e tenuta delle scritture contabili ai fini delle imposte sui redditi, nonché ai fini Irap e Iva e, per tale tributo, l’esonero dall’obbligo di eseguire le liquidazioni ed i versamenti periodici. In buona sostanza, ai fini Iva, si rendono applicabili le medesime regole già previste per i contribuenti che fruiscono del regime delle nuove iniziative produttive, di cui all’art. 13 della Legge n. 388/2000, con conseguente versamento dell’Iva annualmente, come indicato nello stesso provvedimento direttoriale (§ 5.2, lett. e).
Per quanto riguarda gli obblighi documentali, l’Agenzia delle Entrate conferma l’obbligo di conservazione dei documenti ricevuti ed emessi, nonché l’obbligo di emissione della fattura e di certificazione dei corrispettivi, a meno che non sussista una causa di esonero. Sul fronte degli obblighi dichiarativi e comunicativi, pochi sono gli “sconti” concessi a tali contribuenti, in quanto l’unica esclusione concerne la dichiarazione annuale Irap, in quanto tali soggetti sono esenti da tale tributo, fero restando l’obbligo di presentazione delle dichiarazioni annuali ai fini delle imposte sui redditi e dell’Iva. Sul punto, si segnala altresì l’obbligo di presentazione della comunicazione di cui all’art. 21 del D.L. n. 78/2010 (cd. “spesometro”), nonché l’obbligo di presentazione della comunicazione delle operazioni intercorse con soggetti “black list”, di cui all’art. 1 del D.L. n. 40/2010. La precisazione più attesa dai contribuenti è contenuta nel punto 6 del provvedimento direttoriale, laddove si precisa che i contribuenti che applicano il regime supersemplificato sono soggetti agli studi di settore, ovvero ai parametri, e sono tenuti alla compilazione del modello per la comunicazione dei relativi dati.
Tuttavia, precisa il punto 6.2 del provvedimento, “ai fini dell’individuazione del limite relativo all’ammontare dei ricavi conseguiti e dei compensi percepiti (….) non rileva l’adeguamento ai ricavi o compensi determinati sulla base degli studi di settore o dei parametri”. Ricordando che il regime supersemplificato richiede il rispetto del limite di euro 30.000 per ricavi o compensi annuali. Tale ultima disposizione comporta che un soggetto che dichiara 28.000 euro di ricavi per l’anno 2012, ma per effetto dell’adeguamento a Gerico i ricavi si innalzano ad euro 32.000, può restare nel regime supersemplificato anche per l’anno successivo, in quanto i maggiori ricavi da adeguamento (4.000 euro), pur comportando lo “splafonamento” del limite di euro 30.000, non sono rilevanti nell’individuazione del limite di euro 30.000.
Dalla lettura delle disposizioni commentate, emergono alcune considerazioni critiche, in particolare per quel che concerne gli obblighi contabili previsti per tali soggetti, i quali, come visto, sono di fatto esonerato da tutti gli obblighi di registrazione e di tenuta delle scritture contabili, salvo poi dover comunque procedere alla liquidazione annuale dell’Iva, alla determinazione del reddito d’impresa o di lavoro autonomo, con obbligo di dichiarazione, ed alla compilazione dei dati rilevanti per l’applicazione degli studi di settore. Ci si chiede, quindi, come poter procedere alla liquidazione dell’Iva, sia pure annualmente, ovvero come compilare i quadri delle dichiarazioni dei redditi e degli studi di settore, senza aver alcun obbligo contabile, salvo quello di emissione delle fatture e di certificazione dei corrispettivi.
In merito all’applicazione degli studi di settore, la citata C.M. n. 8/E/2012, infatti, precisa quanto segue:
  • anche nei confronti di soggetti supersemplificati si rendono applicabili le cause di esclusione o di inapplicabilità previste per la generalità dei contribuenti che esercitano un’attività soggetta agli studi di settore;
  • la sussistenza di requisiti di accesso al regime in questione (ossia quelli previsti dai co. 96 e 99 dell’art. 1 della Legge n. 244/2007), potrebbe configurare una situazione di marginalità economica, secondo quanto stabilito di numerosi documenti di prassi emanati in passato (C.M. n. 31/E e n. 38/E del 2007), che si realizza allorché siano utilizzati scarsi beni strumentali, ovvero vi siano ridotti volumi d’affari, ecc.
Si ricorda, infine, come precisato anche nella citata C.M. 8/E/2012, che nei confronti dei soggetti “marginali”, gli Uffici devono porre l’attenzione sul fatto che l’utilizzo dello studio di settore potrebbe portare a risultati distorti, ragion per cui è opportuno privilegiare modalità istruttorie differenti per tali soggetti.

lunedì 20 agosto 2012

Ampliamento dell'imponibilità Iva nelle cessioni di immobili abitativi

di Sandro CERATO

Una delle principali novità contenute nel D.L. 22.6.2012, n. 83 (convertito in Legge 7.8.2012, n. 134), è senza dubbio quella concernente l’ampliamento delle fattispecie di applicazione dell’Iva nelle cessioni di immobili, soprattutto per quanto riguarda il comparto abitativo. In particolare, l’art. 9 del predetto decreto, riscrivendo l’art. 10, n. 8-bis), del DPR 633/72, prevede un’applicazione generalizzata dell’Iva sulle cessioni di immobili abitativi poste in essere dalle imprese che li hanno costruiti, o che sugli stessi hanno eseguito interventi di ristrutturazione (di cui all’art. 3, co. 1, lett. c), d) ed f), del DPR 380/2001).
In primo luogo, quindi, è necessario individuare con esattezza la nozione di impresa di costruzione o “ristrutturazione”, posto che nella realtà quotidiana non sempre è agevole individuare tale “status”, soprattutto considerando che le imprese nel settore immobiliare sono variegate e svolgono diverse attività, talvolta di costruzione e altre di mera gestione o compravendita. In tale ambito, la C.M. 11.7.1996, n. 182/E, ha fornito un’esaustiva definizione di impresa costruttrice, che comprende le seguenti fattispecie:
·       impresa di costruzioni “tipica”: è l’impresa che anche occasionalmente svolge attività di costruzione di immobili per la successiva rivendita. Relativamente a tale impresa, è bene ricordare che risulta ininfluente la modalità di esecuzione dei lavori, nel senso che gli stessi possono essere affidati, in tutto o in parte, anche ad altre imprese (C.M. 2.8.1973, n. 45, e C.M. 4.8.2006, n. 27/E);
·       impresa che esegue interventi di recupero: è l’impresa che, anche tramite appalto, esegue gli interventi di recupero, che verranno definiti successivamente, di cui alle lett. c), d) ed f), dell’art. 3 del D.P.R. 380/2001 (Testo Unico dell’edilizia);
·       impresa che ha fatto costruire l’immobile, ma normalmente svolge altra attività: secondo la R.M. 21.3.1990, n. 430065, e la successiva R.M. 23.4.2003, n. 93, l’impresa di costruzione è tale anche qualora il soggetto svolga abitualmente un’altra attività, ma occasionalmente realizzi un edificio, direttamente o tramite appalto ad imprese terze;
·       società cooperative edilizie: in tal caso, la costruzione avviene sia direttamente, sia tramite imprese terze, e gli alloggi sono successivamente assegnati ai soci.
Individuato l’ambito soggettivo delle novità in esame, a decorrere dal 26 giugno 2012 (data di entrata in vigore del D.L. m. 83/2012), risultano imponibili ad Iva:
  • per “obbligo” (quale regime esclusivo e naturale), le cessioni di immobili abitativi effettuate dalle imprese di costruzione o ristrutturazione, se la cessione avviene entro cinque anni dall’ultimazione dei lavori;
  • per “opzione” (a cura esclusiva del cedente), le cessioni di immobili abitativi effettuate dalle medesime imprese citate, se la cessione avviene dopo il termine di cinque anni dall’ultimazione dei lavori.
In buona sostanza, come si desume da quanto riportato, dal 26 giugno 2012 le imprese di costruzione (o ristrutturazione) possono (o devono) applicare l’imposta su tutte le cessioni di immobili abitativi poste in essere, anche se può cambiare la modalità di applicazione della stessa, atteso che:
  • nelle cessioni imponibili per “obbligo”, l’imposta è applicata nei modi ordinari, con esercizio del diritto alla rivalsa da parte del cedente;
  • nelle cessioni imponibili per “opzione”, invece, l’imposta è applicata con il metodo del reverse charge, a seguito delle modifiche apportate, ad opera dello stesso art. 9 del D.L. n. 83/2012, all’art. 17, co. 6, lett. a-bis), del DPR 633/72.
Tale ultimo aspetto rappresenta un’ulteriore novità in ambito Iva, poiché in precedenza l’inversione contabile nelle cessioni di immobili era limitato al  comparto degli immobili strumentali, ragion per cui deve essere posta una particolare attenzione all’atto del trasferimento dell’immobile, fermo restando che in caso di acquirente privato (non soggetto Iva), la sola modalità applicativa dell’Iva non può che essere quella ordinaria, in virtù dell’assenza di soggettività passiva in capo a tale ultimo soggetto.

domenica 19 agosto 2012

Debitore in procedura concorsuale, deduzione agevolata della perdita su crediti


di Michele BANA

Il novellato art. 101, co. 5, primo periodo, del D.P.R. n. 917/1986 stabilisce che, in deroga al principio generale degli elementi certi e precisi, la perdita su crediti è deducibile se il debitore è assoggettato ad una procedura concorsuale oppure ha concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 182-bis del R.D. n. 267/1942. Tale disposizione distingue, pertanto, gli accordi di ristrutturazione dei debiti dalle procedure concorsuali: in altri termini, la nuova norma conferma l’orientamento ormai consolidato dell’Agenzia delle Entrate, secondo cui alle perdite su crediti derivanti da un accordo di ristrutturazione dei debiti, omologato ai sensi dell’art. 182-bis L.F. non è applicabile, in linea di principio, la previsione di deducibilità immediata contenuta nell’art. 101, co. 5, secondo periodo, del Tuir riservata alle procedure concorsuali (C.M. n. 8/E/2009, par. 4.2.).
Il principio in parola appare, tuttavia, contraddetto dal successivo secondo periodo della medesima norma, introdotto in sede di conversione del D.L. n. 83/2012, in virtù del quale – ai fini dell’applicazione dell’art. 101, co. 5, del D.P.R. n. 917/1986 – il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale, e la corrispondente perdita su crediti assume rilevanza fiscale (senza dover applicare il principio generale degli “elementi certi e precisi”), dalla data di uno dei seguenti atti:
·    sentenza dichiarativa di fallimento;
·    decreto di ammissione al concordato preventivo;
·    decreto di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti;
·    provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa;
·    decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
Conseguentemente, a differenza di quanto affermato nel primo periodo della medesima disposizione, l’accordo di ristrutturazione dei debiti omologato viene di fatto incluso tra le procedure concorsuali. Sul punto, si riscontra, tuttavia, un primo dubbio interpretativo rappresentato dal riferimento alla “data del decreto del tribunale di omologazione dell’accordo”, che dovrebbe intendersi quella di emanazione, da parte della competente autorità giudiziaria, del relativo provvedimento. La soluzione adottata dal legislatore diverge, pertanto, con quanto sinora sostenuto dall’Amministrazione Finanziaria, che ha sempre accordato rilevanza tributaria al momento in cui il decreto di omologazione non è più impugnabile (C.M. n. 42/E/2010, par. 4.1.), in modo da poter considerare, inequivocabilmente, la certezza e precisione della perdita di cui al principio generale dell’art. 101, co. 5, del Tuir.
Si consideri, inoltre, che la predetta novità normativa, ancorchè espressamente dettata nell’ambito del reddito d’impresa, potrebbe essere destinata ad esplicare i propri effetti anche ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, e precisamente con riguardo alla disciplina dell’emissione, a cura del creditore, della nota di variazione Iva: l’art. 26, co. 2, del D.P.R. n. 633/1972 subordina, infatti, il diritto alla redazione del documento rettificativo – e, quindi, al conseguente esercizio della detrazione del corrispondente tributo – alla “infruttuosità della procedura concorsuale”. Tale requisito aveva, infatti, sinora impedito l’applicazione della predetta disposizione alle intese di cui all’art. 182-bis L.F., proprio a causa della formulazione dell’art. 101, co. 5, del Tuir, che non contemplava, tra le procedure concorsuali, l’accordo di ristrutturazione dei debiti: con l’effetto che il creditore poteva comunque emettere la nota di variazione, ma a norma del successivo co. 3, trattandosi di una sopravvenuta pattuizione tra le parti, con il rischio, però, di non riuscire a recuperare la relativa Iva, qualora – come spesso accade in presenza di rapporti con un debitore in stato di crisi – il documento non fosse stato emesso entro un anno dell’effettuazione dell’operazione oggetto di rettifica.
Si osservi altresì che l’art. 101, co. 5, del Tuir – nonostante la novellata formulazione – continua ad ignorare la fattispecie della perdita maturata su un credito vantato nei confronti di un debitore residente al di fuori del territorio dello Stato, assoggettato ad una procedura concorsuale estera. Sul punto, l’Agenzia delle Entrate ha avuto modo di precisare che il riconoscimento della deducibilità della stessa è subordinato ad una specifica condizione, ovvero il rilascio di una dichiarazione dell’autorità giurisdizionale estera, che dichiari lo stato di insolvenza del debitore (C.M. n. 39/E/2002), nell’ambito di una procedura concorsuale assimilabile a quelle nazionali indicate nell’art. 101, co. 5, del D.P.R. n. 917/1986. L’orientamento dell’Amministrazione Finanziaria non appare, tuttavia, condiviso dalla giurisprudenza di legittimità, che ritiene, invece, sufficiente la documentazione dei requisiti di certezza e precisione della perdita, senza la necessità che il creditore dimostri di essersi attivato per ottenere tale attestazione (Cass., Sez. Trib., n. 23863/2007). L’accertamento dell’insolvenza del debitore estero non rappresenta, pertanto, un elemento costitutivo del diritto alla deduzione: “ai fini di stabilire la certezza della perdita non può certo pretendersi la declaratoria di insolvenza del debitore dovendosi, piuttosto, avere riguardo all’esistenza di convenzioni internazionali vincolanti anche lo stato del debitore”, idonee a perseguire quest’ultimo nell’adempimento delle proprie obbligazioni.




giovedì 9 agosto 2012

Conversione in Legge del D.L. n. 83/2012, altre novità sui contratti di rete


di Sandro CERATO

L’art. 3, co. 4-quater, del D.L. n. 5/2009 stabilisce che il contratto di rete è soggetto alla pubblicazione nella sezione del registro delle imprese presso cui è annotato ciascun partecipante: l’efficacia dell’atto decorre, pertanto, dal momento in cui è eseguita l’ultima delle iscrizioni previste a carico di tutti i sottoscrittori originari. Il precedente co. 4-ter è stato recentemente modificato dall’art. 45, co. 1, del D.L. n. 83/2012 – così come modificato in sede di conversione in Legge – per effetto del quale, se il contratto prevede l’istituzione di un fondo patrimoniale comune e di un organo comune, destinato a svolgere un’attività, anche commerciale, con i terzi:
·    i predetti adempimenti pubblicitari si intendono assolti mediante l’iscrizione del contratto nel registro delle imprese in cui ha sede la rete;
·    al fondo patrimoniale si applicano, in quanto compatibili, gli artt. 2614 e 2615 c.c., riguardanti il fondo e la responsabilità verso i terzi dei consorzi con attività esterna. In ogni caso, per le obbligazioni contratte dall’organo comune, in relazione al programma di rete, i terzi possono far valere i propri diritti esclusivamente sul fondo comune.
La predetta disposizione del D.L. n. 83/2012 ha, inoltre, stabilito che – entro due mesi dalla chiusura dell’esercizio annuale – l’organo comune è tenuto a redigere una situazione patrimoniale osservando, ove possibile, le norme relative al bilancio delle s.p.a. (art. 2615-bis c.c.), da depositarsi, a cura del medesimo soggetto, presso il registro delle imprese in cui ha sede.
La novellata norma ha altresì previsto che, ai fini dei suddetti adempimenti pubblicitari, le possibilità di redazione del contratto di rete non sono circoscritte a quelle ordinarie dell’atto pubblico e della scrittura privata autenticata, bensì sono estese all’atto firmato digitalmente – a norma dell’art. 25 del D.Lgs. n. 82/2005 – da ciascun imprenditore o legale rappresentate dei soggetti aderenti: il documento deve essere trasmesso ai competenti uffici del registro delle imprese mediante “il modello standard tipizzato con Decreto del Ministro della giustizia di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro dello sviluppo economico”.
È stato, inoltre, modificato il novero delle informazioni minime che deve esporre l’atto da iscrivere presso il registro delle imprese:
a)   il nome, la ditta, ragione o denominazione sociale di ogni partecipante, per originaria sottoscrizione od adesione successiva, la denominazione e la sede della rete, qualora sia prevista l’istituzione di un fondo patrimoniale comune ai sensi della successiva lett. c);
b)  l’indicazione degli obiettivi strategici di innovazione ed innalzamento della capacità competitiva dei partecipanti, e le modalità concordate tra gli stessi per misurare lo stato di avanzamento del raggiungimento di tali obiettivi;
c)   la definizione di un programma di rete, comprendente l’enunciazione dei diritti e degli obblighi assunti da ciascun partecipante, i metodi di realizzazione dello scopo comune e – qualora sia prevista l’istituzione di un fondo patrimoniale comune – la misura ed i criteri di valutazione dei conferimenti iniziali, nonché gli eventuali contributi successivi che ciascun partecipante si obbliga a versare al fondo e le regole di gestione dello stesso;
d)  la durata del contratto, le modalità di adesione di altri imprenditori e, se pattuite, le cause facoltative di recesso anticipato e le condizioni per l’esercizio del relativo diritto, ferma restando, in ogni caso, l’applicazione delle regole generali di legge in materia di scioglimento, totale o parziale, dei contratti plurilaterali, con comunione di scopo;
e)   se il contratto ne prevede l’istituzione, il nome, la ditta, ragione o denominazione sociale del soggetto eventualmente nominato per svolgere l’incarico di organo comune per l’esecuzione del contratto, od anche di una sola parte dello stesso, nonché i poteri di gestione e rappresentanza allo stesso conferiti e le disposizioni da osservare per la sua sostituzione durante la vigenza del contratto;
f)   le regole per l’assunzione delle decisioni dei partecipanti su ogni materia di interesse comune esclusa dai poteri di gestione conferiti all’organo comune, se nominato, nonché quelle riguardanti l’eventuale modificabilità del contratto di rete.
Quest’ultimo aspetto ha, inoltre, formato oggetto di una specifica integrazione da parte dell’art. 45, co. 2, del D.L. n. 83/2012, che ha aggiunto alcuni periodi all’art. 3, co. 4-quater, del D.L. n. 5/2009. In primo luogo, è stato stabilito che le modifiche del contratto di rete devono essere redatte e depositate per l’iscrizione, a cura dell’impresa indicata nell’atto modificativo, soltanto presso la propria sezione del registro delle imprese. Tale ufficio, come previsto dal Decreto Crescita, provvederà, poi, a comunicare l’avvenuta iscrizione della modifica del contratto di rete a tutti gli altri uffici del registro delle imprese, presso cui sono censite le altre imprese partecipanti al network, che eseguiranno, d’ufficio, la relativa annotazione della variazione. L’ultimo periodo dell’art. 45, co. 2, del D.L. n. 83/2012 – introdotto in sede di conversione in Legge – ha pure sancito che, se è prevista la costituzione del fondo comune, la rete può iscriversi nella sezione ordinaria del registro delle imprese, nella cui circoscrizione è stabilita la propria sede, acquisendo soggettività giuridica.
Il novero delle novità riguardanti le reti d’impresa è stato completato da una disposizione agevolativa, contenuta nel co. 3 dell’art. 45 del D.L. n. 83/2012: è, infatti, prevista l’esclusione del contratto di rete dall’ambito di applicazione della Legge 3 maggio 1982, n. 203, riguardante i soggetti operanti nel settore agrario. Il legislatore ha, pertanto, ritenuto che il contratto di rete, pur presentando una propria tipicità economica e sociale, potrebbe essere esposto – soprattutto in relazione ai casi di esercizio in comune dell’attività agricola, per realizzare determinati obiettivi – al regime vincolistico caratterizzante i rapporti agrari, che non favorisce la costituzione e la diffusione delle aggregazioni tra aziende agricole.