di Michele BANA
La disciplina Ires del componente
negativo derivante dall’alienazione del credito è diversa, a seconda delle
condizioni di trasferimento della titolarità giuridica del relativo diritto:
· cessione pro solvendo: il venditore rimane inciso del rischio di retrocessione
ovvero inadempimento del debitore ceduto (Cass. n. 7317/2003). Con l’effetto
che il cedente può continuare ad operare il corrispondente accantonamento al
fondo svalutazione crediti (Cass. n. 12783/2001), fiscalmente rilevante secondo
le regole ordinarie previste dall’art. 106 del Tuir. La deduzione della perdita di cessione deve, pertanto, ritenersi
ammessa nell’esercizio in risultano verificati i requisiti della certa esistenza e dell’obiettiva determinabilità
(R.M. n. 9/634/1982), che presuppone il regolare adempimento del debitore
ceduto e, quindi, la sostanziale decadenza della condizione risolutiva del
rischio di retrocessione;
· cessione pro soluto: non sussiste alcun rischio di retrocessione in capo
all’alienante. Conseguentemente, la perdita derivante dal trasferimento – se
risultante da un atto munito della data certa (Cass. n. 1918/2005) – può
ritenersi definitiva e, quindi, deducibile nell’esercizio di competenza, previa
verifica della sussistenza degli elementi
certi e precisi di cui all’art. 101, co. 5, primo periodo, del Tuir. L’importo fiscalmente rilevante del
suddetto componente negativo del reddito d’impresa, originatosi per effetto di
una cessione pro soluto, deve essere determinato come differenza tra il valore
fiscalmente riconosciuto del credito ed il corrispettivo di alienazione dello
stesso (R.M. n. 137/E/1996). Sul punto, si segnala un principio giurisprudenziale ormai consolidato (Cass. n. 7555/2002):
la cessione pro soluto del credito ad un prezzo simbolico, nonché l’assenza
della prova dell’esercizio – nei confronti del debitore – di qualsiasi
tentativo di esazione prima della cessione, determina una perdita priva dei
requisiti previsti dalla legge, ai fini della deducibilità dal reddito
d’impresa.
Nel caso in cui l’oggetto della
cessione sia rappresentato da un credito
non ancora scaduto, per il quale non sia separatamente prevista la
corresponsione di interessi, è deducibile la sola eccedenza – rispetto al
corrispettivo di alienazione – del valore attualizzato dei crediti, ovvero al
netto degli interessi impliciti non ancora maturati al momento della cessione (Cass. Sez. Trib. n. 13916/2000). Non
rileva, pertanto, il valore nominale di iscrizione nell’attivo dello stato
patrimoniale del bilancio d’esercizio.
I predetti criteri di
deducibilità non operano, tuttavia, nei confronti delle perdite derivanti
dall’alienazione, alla clausola pro soluto, di un credito finanziario sorto nell’ambito di un rapporto di partecipazione.
L’Agenzia delle Entrate ritiene, infatti, che la cessione in parola –
costituendo la fattispecie di rinuncia al credito – non determina una perdita
deducibile ai fini Ires (R.M. n.
70/E/2008), bensì una rettifica
incrementativa del costo della partecipazione, ai sensi dell’art. 94, co.
6, del D.P.R. n. 917/1986 (Cass. n. 11329/2001). In altri termini, la rinuncia
al credito sociale di finanziamento non è immediatamente deducibile dal reddito
d’impresa, ma assume comunque rilevanza, concorrendo, invece, all’incremento
del valore fiscale della quota sociale (Commissione Tributaria Provinciale di Reggio
Emilia n. 584/2007).
Si rammenta, inoltre, che la cessione del credito
rientra tra le operazioni i cui effetti tributari possono formare oggetto di
disconoscimento, da parte dell’Amministrazione Finanziaria, a norma dell’art.
37-bis del D.P.R. n. 600/1973,
qualora l’atto sottostante sia privo di
valide ragioni economiche, e dunque diretto“ ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e
ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”.
Altre possibili tipologie di perdite possono derivare da atti di
rimessione, quali la rinuncia o la
transazione. Nella prima ipotesi, qualora il contribuente ritenga conveniente desistere
dall’attività di recupero del credito, ricorre la fattispecie di cui all’art.
1236 c.c., secondo il quale la dichiarazione di rinuncia del creditore “estingue l’obbligazione quando è comunicata
al debitore, salvo che questi dichiari in un congruo termine di non volerne
profittare”. La giurisprudenza riconosce la facoltà del creditore di
compiere operazioni antieconomiche, quali la rinuncia al credito, “in vista ed in funzione di benefici
economici su altri fronti” (Cass. n. 23863/2007). L’assenza di valide
ragioni, a giustificazione del comportamento assunto, potrebbe, tuttavia,
essere eccepita dall’Agenzia delle Entrate, e giustificare l’accertamento, ai
sensi dell’art. 39, co. 1, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973 (Cass. n.
10802/2002). Il principio generale di
inerenza, inteso anche come inevitabilità dell’onere, potrebbe, infatti,
escludere la rilevanza fiscale della rinuncia volontaria al credito (R.M. n. 9/557/1980). L’Amministrazione
Finanziaria riconosce, tuttavia, una rilevanza fiscale alla rimessione, nel
caso in cui la condotta dell’imprenditore sia stata assunta nell’ottica del
perseguimento del miglior risultato economico possibile, ovvero realizza
effettivamente una scelta di convenienza (R.M.
n. 9/517/1980). Al ricorrere della suddetta ipotesi, la manifestazione di
volontà del creditore, espressa in forma scritta, attribuisce certezza e precisione, da cui
conseguenza il riconoscimento Ires della perdita, purchè venga rispettata la
definizione fiscale della stessa.
La nozione tributaria di perdita, come illustrato in precedenza,
presuppone che il debitore non abbia adempiuto volontariamente, ed il creditore non sia rimasto inerte,
rispetto alle opportunità di recupero offerte dalla normativa vigente (Cass. n.
14568/2001).
Nel caso della transazione
di cui all’art. 1965 c.c., non si configura l’indeducibilità della conseguente
perdita, in quanto l’art. 101, co. 5, del Tuir si riferisce esclusivamente al
carattere oggettivo della stessa, senza porre limitazioni ovvero
differenziazioni in funzione della relativa causa di produzione (Cass. n. 23863/2007). L’orientamento
della giurisprudenza si fonda sul principio secondo il quale, come anticipato,
l’imprenditore può compiere “operazioni di per se stesse antieconomiche in vista ed in funzione di benefici economici su
altri fronti” (Cass. n. 10802/2002). A ciò si aggiunga che la transazione
soddisfa, per propria natura, i requisiti di certezza e precisione della perdita sul credito: l’atto
sottoscritto dalle parti attesta, infatti, l’accertata inconsistenza
patrimoniale del debitore e l’inopportunità di agire giudizialmente nei suoi
confronti (Cass. n. 11329/2001). A ciò si aggiunga che i casi di rinuncia volontaria ad un credito,
compresi quelli perfezionati nell’ambito di una transazione, determinano sempre una perdita deducibile (R.M. n.
9/517/1980), a nulla rilevando, invece, l’eventuale definizione a condizioni
antieconomiche (Cass. n. 23863/2007).
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