martedì 18 settembre 2012

Cessione del credito, deducibilità della perdita differenziata in base al contratto


di Michele BANA

La disciplina Ires del componente negativo derivante dall’alienazione del credito è diversa, a seconda delle condizioni di trasferimento della titolarità giuridica del relativo diritto:
·    cessione pro solvendo: il venditore rimane inciso del rischio di retrocessione ovvero inadempimento del debitore ceduto (Cass. n. 7317/2003). Con l’effetto che il cedente può continuare ad operare il corrispondente accantonamento al fondo svalutazione crediti (Cass. n. 12783/2001), fiscalmente rilevante secondo le regole ordinarie previste dall’art. 106 del Tuir. La deduzione della perdita di cessione deve, pertanto, ritenersi ammessa nell’esercizio in risultano verificati i requisiti della certa esistenza e dell’obiettiva determinabilità (R.M. n. 9/634/1982), che presuppone il regolare adempimento del debitore ceduto e, quindi, la sostanziale decadenza della condizione risolutiva del rischio di retrocessione;
·    cessione pro soluto: non sussiste alcun rischio di retrocessione in capo all’alienante. Conseguentemente, la perdita derivante dal trasferimento – se risultante da un atto munito della data certa (Cass. n. 1918/2005) – può ritenersi definitiva e, quindi, deducibile nell’esercizio di competenza, previa verifica della sussistenza degli elementi certi e precisi di cui all’art. 101, co. 5, primo periodo, del Tuir. L’importo fiscalmente rilevante del suddetto componente negativo del reddito d’impresa, originatosi per effetto di una cessione pro soluto, deve essere determinato come differenza tra il valore fiscalmente riconosciuto del credito ed il corrispettivo di alienazione dello stesso (R.M. n. 137/E/1996). Sul punto, si segnala un principio giurisprudenziale ormai consolidato (Cass. n. 7555/2002): la cessione pro soluto del credito ad un prezzo simbolico, nonché l’assenza della prova dell’esercizio – nei confronti del debitore – di qualsiasi tentativo di esazione prima della cessione, determina una perdita priva dei requisiti previsti dalla legge, ai fini della deducibilità dal reddito d’impresa.
Nel caso in cui l’oggetto della cessione sia rappresentato da un credito non ancora scaduto, per il quale non sia separatamente prevista la corresponsione di interessi, è deducibile la sola eccedenza – rispetto al corrispettivo di alienazione – del valore attualizzato dei crediti, ovvero al netto degli interessi impliciti non ancora maturati al momento della cessione (Cass. Sez. Trib. n. 13916/2000). Non rileva, pertanto, il valore nominale di iscrizione nell’attivo dello stato patrimoniale del bilancio d’esercizio.
I predetti criteri di deducibilità non operano, tuttavia, nei confronti delle perdite derivanti dall’alienazione, alla clausola pro soluto, di un credito finanziario sorto nell’ambito di un rapporto di partecipazione. L’Agenzia delle Entrate ritiene, infatti, che la cessione in parola – costituendo la fattispecie di rinuncia al credito – non determina una perdita deducibile ai fini Ires (R.M. n. 70/E/2008), bensì una rettifica incrementativa del costo della partecipazione, ai sensi dell’art. 94, co. 6, del D.P.R. n. 917/1986 (Cass. n. 11329/2001). In altri termini, la rinuncia al credito sociale di finanziamento non è immediatamente deducibile dal reddito d’impresa, ma assume comunque rilevanza, concorrendo, invece, all’incremento del valore fiscale della quota sociale (Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia n. 584/2007).
Si rammenta, inoltre, che la cessione del credito rientra tra le operazioni i cui effetti tributari possono formare oggetto di disconoscimento, da parte dell’Amministrazione Finanziaria, a norma dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, qualora l’atto sottostante sia privo di valide ragioni economiche, e dunque diretto“ ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”.
Altre possibili tipologie di perdite possono derivare da atti di rimessione, quali la rinuncia o la transazione. Nella prima ipotesi, qualora il contribuente ritenga conveniente desistere dall’attività di recupero del credito, ricorre la fattispecie di cui all’art. 1236 c.c., secondo il quale la dichiarazione di rinuncia del creditore “estingue l’obbligazione quando è comunicata al debitore, salvo che questi dichiari in un congruo termine di non volerne profittare”. La giurisprudenza riconosce la facoltà del creditore di compiere operazioni antieconomiche, quali la rinuncia al credito, “in vista ed in funzione di benefici economici su altri fronti” (Cass. n. 23863/2007). L’assenza di valide ragioni, a giustificazione del comportamento assunto, potrebbe, tuttavia, essere eccepita dall’Agenzia delle Entrate, e giustificare l’accertamento, ai sensi dell’art. 39, co. 1, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973 (Cass. n. 10802/2002). Il principio generale di inerenza, inteso anche come inevitabilità dell’onere, potrebbe, infatti, escludere la rilevanza fiscale della rinuncia volontaria al credito (R.M. n. 9/557/1980). L’Amministrazione Finanziaria riconosce, tuttavia, una rilevanza fiscale alla rimessione, nel caso in cui la condotta dell’imprenditore sia stata assunta nell’ottica del perseguimento del miglior risultato economico possibile, ovvero realizza effettivamente una scelta di convenienza (R.M. n. 9/517/1980). Al ricorrere della suddetta ipotesi, la manifestazione di volontà del creditore, espressa in forma scritta, attribuisce certezza e precisione, da cui conseguenza il riconoscimento Ires della perdita, purchè venga rispettata la definizione fiscale della stessa.
La nozione tributaria di perdita, come illustrato in precedenza, presuppone che il debitore non abbia adempiuto volontariamente, ed il creditore non sia rimasto inerte, rispetto alle opportunità di recupero offerte dalla normativa vigente (Cass. n. 14568/2001).
Nel caso della transazione di cui all’art. 1965 c.c., non si configura l’indeducibilità della conseguente perdita, in quanto l’art. 101, co. 5, del Tuir si riferisce esclusivamente al carattere oggettivo della stessa, senza porre limitazioni ovvero differenziazioni in funzione della relativa causa di produzione (Cass. n. 23863/2007). L’orientamento della giurisprudenza si fonda sul principio secondo il quale, come anticipato, l’imprenditore può compiere “operazioni di per se stesse antieconomiche in vista ed in funzione di benefici economici su altri fronti” (Cass. n. 10802/2002). A ciò si aggiunga che la transazione soddisfa, per propria natura, i requisiti di certezza e precisione della perdita sul credito: l’atto sottoscritto dalle parti attesta, infatti, l’accertata inconsistenza patrimoniale del debitore e l’inopportunità di agire giudizialmente nei suoi confronti (Cass. n. 11329/2001). A ciò si aggiunga che i casi di rinuncia volontaria ad un credito, compresi quelli perfezionati nell’ambito di una transazione, determinano sempre una perdita deducibile (R.M. n. 9/517/1980), a nulla rilevando, invece, l’eventuale definizione a condizioni antieconomiche (Cass. n. 23863/2007).

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