di Michele BANA
Il concordato stragiudiziale rappresenta una
soluzione privatistica della crisi d’impresa, ovvero senza ricorrere
all’intervento del tribunale. È un accordo
plurilaterale raggiunto direttamente con i creditori, idoneo a conseguire
una pluralità di finalità, quali, ad esempio:
· un ulteriore differimento dei termini di pagamento (concordato
dilatorio);
· una riduzione dei propri debiti (concordato
remissorio), talvolta abbinata alla preventiva cessione dei beni aziendali
(concordato liquidatorio);
· evitare la dichiarazione di fallimento.
Si tratta dello strumento preferito
dall’imprenditore, per una serie di motivazioni: costi e tempi di
esecuzione contenuti; facoltà di concordare
con i creditori la sospensione delle azioni individuali esecutive o cautelari
sui propri beni; trascorrere del periodo sufficiente a fare decadere alcune
iniziative esperibili dal curatore, nel caso di successivo fallimento, fermo restando il possibile
esercizio – da parte del medesimo pubblico ufficiale – dell’azione revocatoria
ordinaria (art. 2901 c.c.). Tale rimedio presenta, però, notevoli rischi
rispetto alle soluzioni contemplate dal R.D. n. 267/1942, in particolare,
l’esclusione da alcuni benefici previsti dalla Legge Fallimentare a
favore delle operazioni compiute in esecuzione di un piano attestato di
risanamento, accordo di ristrutturazione dei debiti o concordato
preventivo:
· esonero dall’azione revocatoria fallimentare (art. 67, co. 3, lett. d) ed e), L.F., modificato dal
Decreto Crescita);
· esonero dai reati di bancarotta (art. 217-bis L.F.).
Si consideri, inoltre, che il concordato stragiudiziale non impedisce la
prosecuzione, ovvero l’avvio, delle azioni individuali esecutive o
cautelari sul patrimonio del debitore, ad opera dei creditori, soprattutto
quelli dissenzienti, oppure estranei all’intesa: la sospensione è, invece,
ammessa nell’accordo di ristrutturazione dei debiti (anche nel periodo delle
trattative, ai sensi dell’art. 182-bis, co. 6, della Legge Fallimentare)
e nel concordato preventivo (art. 168 del R.D. n. 267/1942). Il fallimento ne
determina, invece, l’interruzione (art. 51 L.F.).
A ciò si aggiunga il rischio di assoggettamento degli amministratori, dei
sindaci, dei liquidatori e dei direttori generali, nonché dei soci di s.r.l.
(art. 2476, co. 7, c.c.) all’azione di responsabilità, nel caso di successivo
fallimento della società, per aver concorso a cagionare, ovvero aggravare,
il dissesto dell’impresa.
Vi è, infine, una significativa
penalizzazione fiscale, con riferimento alla determinazione del reddito
dell’impresa in crisi: sono, infatti, soggette all’ordinario regime di imposizione sia le plusvalenze da cessione dei
beni che le sopravvenienze da riduzione dei debiti dell’impresa. Tale
circostanza rappresenta un determinante elemento di preferenza per il concordato preventivo, al quale è riconosciuta l’integrale esenzione da tassazione Ires di
tali componenti positivi (artt. 86, co. 5, e 88, co. 4, del D.P.R. 917/1986).
Si tratta dell’unico strumento della soluzione della crisi d’impresa al quale è
accordato un sistema di favore così esteso: diversamente, nel caso del piano attestato di risanamento (art.
67, co. 3, lett. d), L.F.) e dell’accordo
di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis L.F., le plusvalenze da
cessione dei beni sono sempre imponibili, mentre le sopravvenienze attive da
riduzione dei debiti non rilevano soltanto – a seguito dell’entrata in vigore
del D.L. n. 83/2012 – per la parte che eccede le perdite pregresse e di periodo
di cui all’art. 84 del Tuir.
Non è, invece, riscontrabile una disparità di trattamento ai fini Irap, in quanto trovano applicazione i
criteri ordinari: nel caso dei soggetti
Irpef, che determinato la base imponibile del tributo regionale considerando
le regole del D.P.R. n. 917/1986, non
rilevano le plusvalenze e minusvalenze, né le sopravvenienze attive e
passive (art. 5-bis, co. 1, del D.Lgs. n. 446/1997). Diverso è, invece,
l’effetto sui contribuenti Ires, che
individuano il valore della produzione netta secondo il c.d. principio di derivazione dal bilancio,
così come gli imprenditori individuali e le società di persone in contabilità
ordinaria che hanno esercitato l’opzione di cui al successivo co. 2: le
plusvalenze e minusvalenze rilevano,
ad eccezione di quelle derivanti dalla cessione dell’azienda (C.M. n.
27/E/2009, par. 1.2), mentre le sopravvenienze
devono essere valutate in virtù del c.d. principio di correlazione con componenti reddituali rilevanti in
precedenti periodi d’imposta, a norma dell’art. 5, co. 4, del Decreto Irap. Non
è, invece, invocabile – a sostegno della tesi contraria della non imponibilità
– la circostanza che la corrispondente perdita
sofferta dal creditore sia indeducibile. In senso conforme, si veda anche
la sentenza n. 17603/2010 della Corte di
Cassazione, che ha accolto la tesi dell’Agenzia delle Entrate, secondo cui:
· il fatto che il legislatore abbia voluto escludere,
dalla base imponibile del tributo regionale, l’incidenza delle perdite su crediti “non implica di certo una
correlativa esenzione della sopravvenienza in capo all’altra società”. È,
infatti, innegabile, secondo l’Amministrazione Finanziaria, che “la remissione
(ancorchè parziale) di un debito comporta un arricchimento del soggetto che ne
beneficia ed un incremento del suo patrimonio netto”;
· in
nessun caso è invocabile la fattispecie della doppia imposizione, esclusa dall’insussistenza del requisito
dell’identità del presupposto, “in quanto vi è invece un arricchimento della
società debitrice ed un impoverimento di quella creditrice”. A ciò si aggiunga
che, come precisato dall’Agenzia delle Entrate, “il provento era stato tassato
al momento della produzione del valore aggiunto, mentre con la perdita sul
credito si è solo limitata la possibilità di una riduzione della base
imponibile Irap”.
Conseguentemente,
le sopravvenienze attive derivanti dalla riduzione dei debiti potrebbero concorrere alla formazione della
base imponibile Irap – senza considerare l’importo ascrivibile all’Iva,
avente natura patrimoniale, recuperabile dal creditore tramite l’emissione
facoltativa della nota di variazione (art. 26, co. 2, del D.P.R. n. 633/1972) –
nel limite della parte corrispondente
del costo che, in un precedente periodo d’imposta, aveva partecipato alla
determinazione del valore della produzione netta del tributo regionale. È il
caso, ad esempio, dei debiti commerciali,
originatisi per effetto dell’acquisto di materie prime o servizi (voci B)6) e
B)7) del conto economico): diversamente, non
si ha sopravvenienza attiva imponibile, ai fini del tributo regionale, con
riferimento alla riduzione delle
passività finanziarie – in quanto inizialmente generatesi per effetto di un
mero movimento monetario – ad eccezione di quelli maturate nell’ambito di un
contratto di locazione finanziaria e, quindi, correlate ad un costo passato
rilevante (la sola quota capitale iscritta nella voce B)8) dello schema di cui
all’art. 2425 c.c., in quanto la parte interessi non è stata dedotta per
espressa previsione normativa).
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