martedì 25 settembre 2012

Crisi d’impresa, maggiori rischi col concordato stragiudiziale


di Michele BANA

Il concordato stragiudiziale rappresenta una soluzione privatistica della crisi d’impresa, ovvero senza ricorrere all’intervento del tribunale. È un accordo plurilaterale raggiunto direttamente con i creditori, idoneo a conseguire una pluralità di finalità, quali, ad esempio:
·    un ulteriore differimento dei termini di pagamento (concordato dilatorio);
·    una riduzione dei propri debiti (concordato remissorio), talvolta abbinata alla preventiva cessione dei beni aziendali (concordato liquidatorio);
·    evitare la dichiarazione di fallimento.
Si tratta dello strumento preferito dall’imprenditore, per una serie di motivazioni: costi e tempi di esecuzione contenuti; facoltà di concordare con i creditori la sospensione delle azioni individuali esecutive o cautelari sui propri beni; trascorrere del periodo sufficiente a fare decadere alcune iniziative esperibili dal curatore, nel caso di successivo fallimento, fermo restando il possibile esercizio – da parte del medesimo pubblico ufficiale – dell’azione revocatoria ordinaria (art. 2901 c.c.). Tale rimedio presenta, però, notevoli rischi rispetto alle soluzioni contemplate dal R.D. n. 267/1942, in particolare, l’esclusione da alcuni benefici previsti dalla Legge Fallimentare a favore delle operazioni compiute in esecuzione di un piano attestato di risanamento, accordo di ristrutturazione dei debiti o concordato preventivo:
·    esonero dall’azione revocatoria fallimentare (art. 67, co. 3, lett. d) ed e), L.F., modificato dal Decreto Crescita);
·    esonero dai reati di bancarotta (art. 217-bis L.F.).
Si consideri, inoltre, che il concordato stragiudiziale non impedisce la prosecuzione, ovvero l’avvio, delle azioni individuali esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore, ad opera dei creditori, soprattutto quelli dissenzienti, oppure estranei all’intesa: la sospensione è, invece, ammessa nell’accordo di ristrutturazione dei debiti (anche nel periodo delle trattative, ai sensi dell’art. 182-bis, co. 6, della Legge Fallimentare) e nel concordato preventivo (art. 168 del R.D. n. 267/1942). Il fallimento ne determina, invece, l’interruzione (art. 51 L.F.).
A ciò si aggiunga il rischio di assoggettamento degli amministratori, dei sindaci, dei liquidatori e dei direttori generali, nonché dei soci di s.r.l. (art. 2476, co. 7, c.c.) all’azione di responsabilità, nel caso di successivo fallimento della società, per aver concorso a cagionare, ovvero aggravare, il dissesto dell’impresa.
Vi è, infine, una significativa penalizzazione fiscale, con riferimento alla determinazione del reddito dell’impresa in crisi: sono, infatti, soggette all’ordinario regime di imposizione sia le plusvalenze da cessione dei beni che le sopravvenienze da riduzione dei debiti dell’impresa. Tale circostanza rappresenta un determinante elemento di preferenza per il concordato preventivo, al quale è riconosciuta l’integrale esenzione da tassazione Ires di tali componenti positivi (artt. 86, co. 5, e 88, co. 4, del D.P.R. 917/1986). Si tratta dell’unico strumento della soluzione della crisi d’impresa al quale è accordato un sistema di favore così esteso: diversamente, nel caso del piano attestato di risanamento (art. 67, co. 3, lett. d), L.F.) e dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis L.F., le plusvalenze da cessione dei beni sono sempre imponibili, mentre le sopravvenienze attive da riduzione dei debiti non rilevano soltanto – a seguito dell’entrata in vigore del D.L. n. 83/2012 – per la parte che eccede le perdite pregresse e di periodo di cui all’art. 84 del Tuir.
Non è, invece, riscontrabile una disparità di trattamento ai fini Irap, in quanto trovano applicazione i criteri ordinari: nel caso dei soggetti Irpef, che determinato la base imponibile del tributo regionale considerando le regole del D.P.R. n. 917/1986, non rilevano le plusvalenze e minusvalenze, né le sopravvenienze attive e passive (art. 5-bis, co. 1, del D.Lgs. n. 446/1997). Diverso è, invece, l’effetto sui contribuenti Ires, che individuano il valore della produzione netta secondo il c.d. principio di derivazione dal bilancio, così come gli imprenditori individuali e le società di persone in contabilità ordinaria che hanno esercitato l’opzione di cui al successivo co. 2: le plusvalenze e minusvalenze rilevano, ad eccezione di quelle derivanti dalla cessione dell’azienda (C.M. n. 27/E/2009, par. 1.2), mentre le sopravvenienze devono essere valutate in virtù del c.d. principio di correlazione con componenti reddituali rilevanti in precedenti periodi d’imposta, a norma dell’art. 5, co. 4, del Decreto Irap. Non è, invece, invocabile – a sostegno della tesi contraria della non imponibilità – la circostanza che la corrispondente perdita sofferta dal creditore sia indeducibile. In senso conforme, si veda anche la sentenza n. 17603/2010 della Corte di Cassazione, che ha accolto la tesi dell’Agenzia delle Entrate, secondo cui:
·    il fatto che il legislatore abbia voluto escludere, dalla base imponibile del tributo regionale, l’incidenza delle perdite su crediti “non implica di certo una correlativa esenzione della sopravvenienza in capo all’altra società”. È, infatti, innegabile, secondo l’Amministrazione Finanziaria, che “la remissione (ancorchè parziale) di un debito comporta un arricchimento del soggetto che ne beneficia ed un incremento del suo patrimonio netto”;
·    in nessun caso è invocabile la fattispecie della doppia imposizione, esclusa dall’insussistenza del requisito dell’identità del presupposto, “in quanto vi è invece un arricchimento della società debitrice ed un impoverimento di quella creditrice”. A ciò si aggiunga che, come precisato dall’Agenzia delle Entrate, “il provento era stato tassato al momento della produzione del valore aggiunto, mentre con la perdita sul credito si è solo limitata la possibilità di una riduzione della base imponibile Irap”.
Conseguentemente, le sopravvenienze attive derivanti dalla riduzione dei debiti potrebbero concorrere alla formazione della base imponibile Irap – senza considerare l’importo ascrivibile all’Iva, avente natura patrimoniale, recuperabile dal creditore tramite l’emissione facoltativa della nota di variazione (art. 26, co. 2, del D.P.R. n. 633/1972) – nel limite della parte corrispondente del costo che, in un precedente periodo d’imposta, aveva partecipato alla determinazione del valore della produzione netta del tributo regionale. È il caso, ad esempio, dei debiti commerciali, originatisi per effetto dell’acquisto di materie prime o servizi (voci B)6) e B)7) del conto economico): diversamente, non si ha sopravvenienza attiva imponibile, ai fini del tributo regionale, con riferimento alla riduzione delle passività finanziarie – in quanto inizialmente generatesi per effetto di un mero movimento monetario – ad eccezione di quelli maturate nell’ambito di un contratto di locazione finanziaria e, quindi, correlate ad un costo passato rilevante (la sola quota capitale iscritta nella voce B)8) dello schema di cui all’art. 2425 c.c., in quanto la parte interessi non è stata dedotta per espressa previsione normativa).

Nessun commento:

Posta un commento